Diciamo la verità, i Periphery sono un gruppo divisivo. Da un lato c’è chi li esalta sottolineandone la perizia tecnica, dall’altro c’è chi li accusa di comporre con lo stesso trasporto di ChatGPT. Come sempre, la verità sta nel mezzo.
Senza dubbio, i Periphery sono di un altro pianeta. I cinque di Washington – Misha Mansoor (chitarra), Jake Bowen (chitarra), Matt Halpern (batteria), Spencer Sotelo (voce) e Mark Holcomb (chitarra) –, macinano riff su riff come pochi altri e sono capaci di infilare talmente tante idee in una singola canzone da far venire il capogiro. Non fa eccezione il nuovo album Periphery V: Djent Is Not a Genre, che – anzi – è ancora più massimalista dei sei capitoli precedenti (non lasci ingannare il titolo, dato che il doppio Juggernaut è escluso dalla numerazione).
La lavorazione del disco, però, non è stata tutta rose e fiori. Per la band, infatti, dare un seguito all’acclamato Periphery IV: Hail Stan (2019) è stata una delle esperienze più difficili che abbia dovuto affrontare nei suoi 17 anni di storia. Generalmente assai prolifici, questa volta i Periphery sono stati vittime delle loro stesse ambizioni e hanno dovuto lavorare per quasi quattro anni prima di pubblicare della nuova musica. Le sessioni di scrittura, infatti, sono iniziate nell’autunno del 2020 e sono durate un anno: un tempo lunghissimo per gli standard della band. La pandemia, inoltre, non ha aiutato, rallentando ogni aspetto del progetto e lasciano ai cinque molto – forse troppo – tempo a disposizione per analizzare il materiale prodotto. I Periphery si sono così trovati in un empasse, che li ha portati a dubitare della qualità delle canzoni e a un passo dal cestinare tutto.
La difficoltà sono state superate con la solita ricetta: dedizione, stress e tanta sofferenza. Un processo che ha lasciato i Periphery con la consapevolezza che le nuove canzoni stavano andando esattamente nella direzione voluta, ovvero verso lidi musicali inesplorati. E anche se la ricetta di base non è cambiata drasticamente rispetto al più immediato passato – i ritornelli ficcanti sono sempre al loro posto, così come le vertiginose poliritmie –, tutto ha subito un notevole upgrade, grazie a una produzione ancora più curata e strutturata.
Lo dimostrano le nove canzoni che compongono Periphery V: Djent Is Not a Genre, un insieme di brani ambiziosi e avvincenti, che non hanno paura di portare l’ascoltatore verso territori sconosciuti. Ne è un esempio un pezzo come “Wildfire”, una botta sonora che si conclude però con una sezione jazz, su cui svetta un sassofono suonato da Jørgen Munkeby degli Shining e un soffice tappeto elettronico; oppure il finale cinematico di “Atropos”, che recupera certi spunti del lavoro di Hans Zimmer, come l’utilizzo degli archi e delle percussioni elettroniche. E se non mancano momenti più canonici, come il math rock di “Everything Is Fine!”, il djent di “Zagreus”, l’alternative rock di “Dying Star” e l’emo pop di “Wax Wings” – il tutto, ovviamente, sepolto da una cascata di riff –, non possono non sorprendere la ballata elettropop “Silhouette” oppure gli inserti ambient/shoegaze che si incuneano maliziosi nelle suite progressive “Dracul Gras” e “Thanks Nobuo” che concludono l’album.
Insomma, l’attesa è stata lunga e la lavorazione del disco per lunghi tratti difficoltosa, ma i risultati sono sotto gli occhi – e nelle orecchie – di tutti. È vero, alle volte lo sfoggio di tecnica è ai limiti della labirintite e permane una certa freddezza di fondo, ma alla base di tutto ci sono una scrittura e una direzione artistica ben precise. Non resta che concordare con il giudizio espresso recentemente da Mike Portnoy: al momento, in ambito progressive metal, Periphery V: Djent Is Not a Genre e Fauna degli Haken sono gli album dell’anno.