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REVIEWSLE RECENSIONI
14/02/2020
Stone Temple Pilots
Perdida
Nel piattume generale, spuntano inutilissimi riempitivi e momenti di bruttezza apicale: la title track sembra un pezzo cantato da Massimo Ranieri dopo un’abboffata di pastiera napoletana.

Ammetto che i primi dischi degli Stone Temple Pilots (Core del 1992 e Purple del 1994) mi erano piaciuti molto, anche se in cuor mio ho sempre pensato che la band capitanata da Scott Weiland fosse il classico esempio di gruppo fortunato commercialmente ma in debito d’ossigeno quanto a originalità. Un fenomeno fotocopiato da tanti altri del momento, insomma, che si è trovato, peraltro, ben presto con le polveri bagnate.

Niente più di rilevante, insomma, ma una serie di dischi bruttini, scioglimenti e reunion (da queste parti è passato anche Chester Bennington) sempre all’insegna delle bizze del frontman, alle prese con una grave dipendenza dall’eroina, che in seguito ne causò il decesso, avvenuto il 3 dicembre del 2015.

Un colpo ferale per la carriera della band che, invece di sciogliersi, ha trovato la forza di ricominciare, arruolando un nuovo vocalist, Jeff Gutt, reduce da due stagioni come partecipante di X Factor, e rilasciando, nel 2018, un disco passabile (Stone Temple Pilots) di cui, forse, solo in pochi sentivano la necessità.

Oggi, il quartetto originario di San Diego torna con un nuovo lavoro interamente acustico. Se da un lato è apprezzabile il tentativo di imboccare una strada desueta e cercare altre forme espressive, per converso la scelta si rivela poco ispirata e per niente efficace. Gutt, in veste di cantante, non è affatto male e la band sa tecnicamente il fatto suo; le dieci canzoni in scaletta, però, non decollano mai, sono eleganti ma prive di pathos, vorrebbero avere un mood malinconico e riescono invece ad essere loffie e assai noiose.

Gli arrangiamenti troppo zuccherini, poi, e i tentativi di arricchire il suono con inserti inusuali (flauto, violino, sax) non risollevano le sorti di una scrittura pedante e stereotipata. Nel piattume generale, spuntano inutilissimi riempitivi (la strumentale I Once Sat At Your Table) e momenti di bruttezza apicale: la title track sembra un pezzo cantato di Massimo Ranieri dopo un’abboffata di pastiera napoletana, con l’aggravante di una chitarra acustica spagnoleggiante e di un leziosissimo arrangiamento d’archi.

Il disco si salva dall’inevitabile debacle per qualche canzone che riesce a emergere, almeno un po', dalla mediocrità dilagante: gli umori psichedelici di Three Wishes, l’ossatura grunge di You Found Yourself While Losing You… e la conclusiva, ariosa, Sunburst, fanno guadagnare un punticino a un voto clamorosamente deficitario.


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