Come avrebbero potuto sopravvivere senza Videomusic gli affamati di musica degli anni ottanta? Non esistevano Youtube, Spotify e internet, la salvezza erano le riviste musicali cartacee cariche di recensioni, i negozi di dischi, paradiso per vista e udito, più questo mitico canale televisivo che ci faceva volare da una parte all’altra nel mondo delle sette note.
E a fine decennio, periodo molto prolifico per l’uscita di lavori che rimarranno nel tempo, l’atterraggio sarà spesso in Irlanda. Se gli U2 si erano ormai consolidati, parecchi artisti, fra cui Enya, i Pogues, Sinéad O’Connor e i My Bloody Valentine, stavano cominciando a farsi apprezzare oltre il confine.
Gli Hothouse Flowers erano fra questi con lo straordinario album di debutto People (1988), pronti a riscontrare successo grazie a un'originale miscela di folk-celtic rock. Fu proprio Bono a notarli nel 1986 e a procurar loro un contratto discografico.
Trainati dalla suadente voce di Liam Ó Maonlaí che insieme a Fiachna Ó Braonáin e Peter O' Toole costituisce il fulcro della band, i dublinesi sfornano undici -saranno tredici nelle successive edizioni su CD- gioiellini indimenticabili. Risulta peraltro difficile catalogarli in un genere, perché accanto all’impiego di una strumentazione adatta per creare la tipica musica irlandese, come il bodhran, il bouzouki e il fiddle (con questo termine si identifica il violino tradizionale nella sua forma e sonorità più classica), abbiamo la chitarra elettrica, il sassofono e un’addizionale spolverata di fiati che rendono alcuni pezzi potenti e ammiccanti al Rhythm and Blues. Ne sono un chiaro esempio quella ventata di freschezza e libertà che si intitola Love Don’t Work This Way –con Jerry Fehili irrefrenabile alla batteria, assecondato dall’uragano delle percussioni Luis Jardim- e la tonitruante, spumeggiante Feet On The Ground, tra l’altro primo e terzo singolo pubblicati, quasi a voler sradicare le loro origini. Il brano più famoso rimane comunque Don’t Go, che, in poco meno di quattro minuti ci fa respirare l’Irlanda a pieni polmoni. Caratterizzato dal cantato molto originale, tipico di Liam, che prevede spesso un incipit parlato, non è altro che un gospel attualizzato con testo bucolico, dove un uomo dolcemente innamorato chiede alla sua amata di non andarsene sul più bello, ma di rimanere con lui a godere del fascino della natura e del mondo. La capacità di creare istantanee di vita nelle liriche è notevole in parecchie canzoni, in cui si riversano anche toni drammatici, diversamente dall’allegria e leggerezza della traccia appena analizzata. Forgiven e If You Go ne sono fulgido esempio, oltre a risultare fra le più rappresentative del disco.
Al tema della redenzione e del perdono presenti nella prima toccante composizione si affianca, nella seconda, lo smarrimento per la possibile e plausibile perdita di una persona cara.
“If you go
Can’t leave now
Don’t leave now Brother
Cos we love you
But if you go I hope you get there
If you get there I know you’ll like it.”
“Se te ne vai…no, non puoi partire ora, non partire ora fratello, perché ti vogliamo bene, ma se te ne vai veramente, spero tu riesca ad arrivare là. Se ci arriverai so che ti piacerà”.
Si tratta di una tragica ballata senza tempo, che nemmeno un estraniante assolo di sassofono (Leo Barnes è un mago nel creare atmosfere struggenti) riesce ad addolcire, anche perché nell’apparente semplicità delle parole si nasconde tanto dolore per la sicura dipartita dell’amico. E il termine dipartita potrebbe pure essere visto in accezione estrema. Infatti l’argomento della morte, dell’abbandono, riecheggia anche in altre songs come Hallelujah Jordan dove il protagonista affogherà per sempre, definitivamente, nell’alcool, i dispiaceri per l’addio da parte della compagna, attratta da un uomo più giovane e bello di lui.
Non mancano, tuttavia, da buoni irlandesi, rimandi a Dio e alla religione, con messaggi di speranza e di felicità per una raggiunta maturità intesa come sviluppo intellettuale e spirituale dell’individuo, vedasi ad esempio, The Older We Get. L’invito a non mollare e a confidare nella soluzione dei problemi riecheggia nella gioiosa It’ll Be Easier In The Morning in cui Liam è spalleggiato, come spesso capita, dalla brava vocalist Claudia Fontaine, mentre l’electric fiddle della special guest Alicia “Lovely” Previn esalta il ritmo della canzone.
Infine una menzione speciale per Yes I Was, veramente brillante, con la vivacità tipica di uno spiritual.
Rimane un mistero il motivo per cui, dopo un secondo lavoro di successo come Home (1990), comunque inferiore qualitativamente rispetto al primo, il successivo, meraviglioso, Songs From The Rain (1993) abbia ricevuto solo il plauso della critica, pur essendo un disco molto ispirato e innovativo. Lo scollamento con le attese del pubblico proseguirà nell’interessante Born (1998) dove non verrà compresa la svolta elettronica. Peccato, perché era un progetto affascinante. Probabilmente furono questi insuccessi ad arrecare attriti che causarono abbandoni importanti all’interno della band. Il gruppo non riuscì più a distinguersi e produsse poco in studio, pur mantenendo una discreta attività live.
Da alcuni anni gli Hothouse Flowers sono tornati in auge con Let’s Do This Thing (2016), costruito e promozionato senza etichetta discografica. Avevano in cantiere anche di esibirsi dal vivo l’anno scorso, ma la pandemia ha bloccato tutto. Se ne riparlerà probabilmente nel 2022.
“Le mie canzoni sono come figli, hanno un’anima, se le ascoltiamo rimangono in vita e si possono sempre trovare una forza e un significato differenti in esse. Hanno la capacità di offrire una nuova chiave di lettura in base a come si è vissuta la giornata. E ciò è realmente una cosa strabiliante.”
Nel frattempo, in attesa di loro novità, le parole di Liam Ó Maonlaí sono da prendere al volo: ascoltare People è l’occasione giusta per riassaporare quest’opera ispirata, mantenendola in vita.