“…io credo che quella di perdere a modo nostro sia una delle più preziose libertà che abbiamo. Non possiamo scegliere se vincere o perdere, ovviamente, ma possiamo scegliere in che modo affrontare la corsa (o la vita) e, al di là del risultato finale, in quel modo scegliamo quale segno lasciare su ciò che facciamo”
(R. Bonfanti)
Leggo oggi in questa nuova edizione per mano di Edizioni Del Faro questo fortunato romanzo dal titolo “L’uomo a pedali”, scritto che - se non erro nei conti del tempo - ritrova nuova luce e nuove rifiniture 12 anni dopo la sua prima pubblicazione. Forse al ciclismo e alla bicicletta vengono restituiti i più immediati riferimenti allegorici per questa vita che ci troviamo addosso, eppure qui c’è da fare un salto di lato alla corsa, al cemento battuto e al percorso stabilito. C’è da porre l’attenzione sulle parole che Roberto Bonfanti ha scelto di ricamare assieme e, ancora prima, c’è da carezzare con cura il disegno intimo e personale che dà il senso finale a questo ricamo letterario.
Non è il ciclismo e non è la rivincita, non è la gara, non un pedale o una salita. Bonfanti mette a nudo la vita di ognuno di noi, mette a nudo la fragilità della sconfitta, il diritto alla sconfitta e il dovere di non ignorarla. “L’uomo a pedali” (titolo ispirato al celebre brano di Pino Marino), è l’ovvia conseguenza della solitudine che arriva quando non c’è correlazione tra le attese e la consapevolezza, quando non c’è una linea di continuità tra quel che credevamo e quel che realmente siamo.
Dunque, ad un romanzo come questo, non dobbiamo chiedere risposte, ma neanche fotografie o istantanee sociali. Alla lettura, scorrevole nella sua semplice maturità, pop e senza alcuna presunzione di stile e di futurismi, ho chiesto di spiegarmi la solitudine che vivo dentro, forse troppo spesso. Ed è proprio vero: ad ognuno la scelta di come perdere la propria gara.
Ed ecco il punto, marzulliano forse: scegliamo quel che ci piace credere o scegliamo quel che è diretta conseguenza di ciò che siamo? Non vi dirò qual è stata la scelta finale di Sergio, il protagonista. Non vi dirò quanto si impara dalla scelta quotidiana di un personaggio come Supersuono, ma certamente ho capito subito quanto sa essere preziosa la scelta che facciamo noi ogni giorno, quella che poi alla fine racconta al mondo chi siamo attraverso ogni piccola gara quotidiana. Ed è qui forse il vero segreto: non basta aver fiato buono e pedali forti su cui spingere. Non basta vincere. Non serve vincere.
Iniziamo dalle parole. Perché in questo tempo liquido le parole sono totalmente “fuori luogo”, anzi fuori moda. Che rapporto hai con le parole?
Istintivamente mi viene in mente un verso di Roberto Vecchioni che dice: “so che scrivo perché forse non so vivere”. Credo che per me le parole - nel senso della scrittura - siano state spesso una sorta di rifugio, anche se poi nella vita vera ho spesso l’impressione di non trovare mai quelle giuste, per cui il mio rapporto con loro è abbastanza conflittuale.
Più in generale, in quest’epoca le parole sono anche un’arma importante: non a caso l’impoverimento culturale che stiamo vivendo ci sta portando a usare un vocabolario sempre più scarno, il che ci rende per forza di cose più indifesi e meno capaci di comprendere la realtà, mentre i grandi media giocano spesso subdolamente con il significato delle parole e con le etichette per tentare di cambiare il senso delle cose.
Insomma, sia sul piano sociale che su quello personale, quella con le parole è un’eterna battaglia. E credo sia sempre una battaglia cruciale.
Un salto nella copertina. Questo cielo, questo grigio, questo chiarore. Sensazioni di vuoto e non è un caso. Ma anche sensazioni di volo, di sospensione. E anche questo non è un caso. Eppure non c’entra nulla tutto questo con i pedali e con il ciclismo.
Hai assolutamente ragione. Il fatto è che volevo proprio una copertina che non c’entrasse nulla con il ciclismo, anche per sottolineare che, per quanto la bicicletta sia la passione che anima il protagonista e abbia un ruolo chiave nel romanzo, “L’uomo a pedali” non è un libro “sul ciclismo”. Il ciclismo, tutto sommato, si potrebbe anche sostituire qualunque altra cosa senza che la sostanza della storia cambi una virgola. Per questo cercavo una copertina che fotografasse soprattutto le sensazioni di fondo e gli stati d’animo vissuti dal protagonista e quella che è stata scelta, per i motivi che tu hai spiegato benissimo, credo riesca a farlo.
Parliamo di solitudine. Un conto è la solitudine che conquisti per aver staccato il gruppo, un conto quella che scegli in prima persona, ma questo libro parla di una solitudine che logora, di una solitudine che arriva quando sono gli altri a staccare te. Questo passaggio del libro trovo che sia il vero cuore del romanzo, non trovi?
Io credo che spesso il confine fra le due solitudini sia molto sottile perché, anche quando sei solo al comando di una corsa, basta poco perché le energie finiscano e la tua solitudine trionfale si trasformi in un calvario. La solitudine ti porta per forza di cose a fare i conti con te stesso e con i tuoi pensieri, ed è proprio per questo tutte le solitudini alla lunga possono diventare logoranti.
La mia sensazione però è che il problema di Sergio non sia tanto la solitudine quanto il faticare a trovare il proprio posto nel mondo e quindi il riuscire a inserirsi in una ragnatela di rapporti umani e scelte infinitamente più complesse di quelle rassicuranti a cui era abituato guardando il mondo da dietro il manubrio di una bicicletta.
Tra l’altro credo che una delle cose affascinanti del ciclismo sia anche il fatto che si tratta di uno sport individuale, ma anche di uno sport di squadra - perché nelle corse contano molto gli aspetti tattici e il supporto dei compagni di squadra - e al tempo stesso di qualcosa in cui per la gran parte del tempo i corridori sono tutti insieme, in gruppo, con tutto ciò che ne consegue a livello di rapporti ed equilibri. Credo sia anche questo aspetto a renderlo una metafora molto particolare della vita.
Altro passaggio che ho pensato importante: parliamo di Supersuono. Parliamo dunque di discriminazione verso il “diverso” che non passa per il colore della pelle, ma per la semplicità che arriva fuori dalle maschere confezionate. Non so cosa ne pensi, ma ho trovato questo un altro passaggio determinante per il romanzo e per le sue morali.
Supersuono è un personaggio che adoro anche io. Soprattutto amo la sua sfrontatezza: il suo essere sì un personaggio “emarginato”, ma anche una persona che del suo essere ai margini fa un motivo d’orgoglio e un punto di forza. Invidio molto il modo in cui lui riesce non solo a lasciarsi scivolare tutto quanto addosso ma addirittura a “sfidare”, a modo proprio, gli sguardi sdegnati che si posano su di lui. Credo sia una persona autenticamente libera, e questo non è un aspetto di poco conto.
Sul tema delle discriminazioni in generale mi trovi perfettamente d’accordo. Purtroppo lo sguardo diffidente verso il diverso è qualcosa da cui forse non ci libereremo mai. E il “diverso” è anche semplicemente il vagabondo con la chitarra che trovi sul treno o il ragazzo sensibile che fa qualcosa di completamente diverso dalla massa. Per questo credo sia un tema che si può affrontare solo son la cultura e con l’umanità. E sempre per lo stesso motivo mi fanno molta paura i tentativi di “politicizzare” (o, peggio, rendere “partitici”) questi argomenti, anche perché questi tentativi portano regolarmente a creare “discriminati di serie A” e “discriminati di serie B” (con tanto di promozioni o retrocessioni da una categoria all’altra a seconda di cosa va più “di moda” al momento).
Ognuno è davvero libero di perdere a modo suo?
Ti racconto un aneddoto che per me è stato illuminante: qualche anno fa ho avuto la fortuna di portare avanti un progetto dedicato alla riscoperta della musica d’autore italiana all’interno del carcere di San Vittore, il che mi ha dato modo di confrontarmi in tante occasioni in modo estremamente aperto con i detenuti. Durante uno di questi incontri siamo finiti a parlare di come a volte la vita ti porti a fare delle scelte “sbagliate” quasi per forza, per mancanza di alternative. Proprio mentre io stavo riflettendo su questa cosa uno dei detenuti mi ha interrotto dicendo: “Non è vero. C’è sempre una scelta. Anche quando l’unica cosa che puoi fare per sopravvivere è delinquere, puoi comunque scegliere, per esempio, di picchiare le vecchiette per rubargli la pensione oppure di provare a rapinare un tabaccaio: queste due strade non sono assolutamente la stessa cosa. Ed è quando ti ritrovi a dover fare questo tipo di scelte si vede chi sei veramente”.
Tutto questo per dire che, sì, io credo che quella di perdere a modo nostro sia una delle più preziose libertà che abbiamo. Non possiamo scegliere se vincere o perdere, ovviamente, ma possiamo scegliere in che modo affrontare la corsa (o la vita) e, al di là del risultato finale, in quel modo scegliamo quale segno lasciare su ciò che facciamo. Personalmente, restando in ambito sportivo, non mi sono mai innamorato di un atleta per il numero delle sue vittorie ma solo per il modo in cui ha saputo vincere o perdere. E credo che la stessa cosa valga anche per gli artisti e per le persone in generale.
Durante la lettura ho pensato fosse un romanzo sulla vittoria personale. Arrivando alla fine, al primo impatto, mi resta dentro un romanzo di sconfitta definitiva. Ma poi, dopo averlo metabolizzato, credo sia un romanzo di liberazione e salvezza. Tu cosa mi dici?
Mi piace molto la tua ultima interpretazione. Anche a me piace pensare che sia un romanzo di liberazione. Mi piace pensare che, così come non ha mai voluto mettere il piede a terra durante una corsa, anche nella vita Sergio non si sia mai arreso: ha semplicemente scelto di provare ad affrontare ogni cosa sempre e solo a modo suo, pur con tutti i suoi disequilibri, i suoi errori e i suoi limiti. E nel suo animo non ha mai smesso di sentire l’impulso di alzarsi sui pedali e fuggire via da tutto e tutti. In fondo, quest’ultima, è sempre stata in assoluto la cosa che l’ha fatto sentire vivo e libero più di ogni altra.
E se in qualche modo ti dicessi che Sergio, il protagonista, somiglia molto a Matteo de “La meglio gioventù”?
Ammetto la mia ignoranza: sono andato a guardare il film apposta per rispondere alla tua domanda. Anche in questo caso credo che la tua interpretazione non sia per niente sbagliata. Sicuramente i due personaggi hanno qualcosa in comune: se non altro quell’idealismo di fondo e quell’intima fragilità mascherata dietro un velo di forza ostinata che li spinge ad andare contro tutto e tutti pur di non tradire sé stessi.
Pedalare è una delle più grandi metafore della vita. Questo libro nasce dal bisogno di celebrare la vita o dalla necessità di scappare dalle sue costrizioni?
Credo nasca dal bisogno di raccontare un determinato approccio alla vita e tutte le sensazioni che ne conseguono, nel bene e nel male. In fondo Sergio è uno che fatica a pedalare sereno in gruppo: ha sempre bisogno di affrontare ogni piccola salitella come se fosse il muro decisivo di un Giro delle Fiandre, ma ama anche godersi il vento in faccia e la sensazione della strada che scorre sotto le sue ruote. E credo che la cosa bella sia che, al di là dei sogni da bambino, non lo ha mai fatto davvero per diventare un campione o per vincere delle corse, ma semplicemente perché in bicicletta si è sempre sentito libero ed è sempre riuscito, in qualche modo, a esprimere sé stesso e a percepire il mondo come qualcosa di molto più sopportabile. Credo quindi che “L’uomo a pedali” parli principalmente della difficoltà nel trovare il proprio posto nel mondo e del voler provare ad affrontare la vita a modo proprio, nonostante tutto.
A chiudere sfogliamo un tema sociale, forse un altro grande cuore del romanzo. Quanto la passione di Sergio in realtà è un’ossessione? Quanto la passione di oggi la scambiamo per costrizione, per vincolo. Riuscire per un sogno pulito e sincero oppure riuscire perché abbiamo bisogno di ritrovare noi stessi nell’approvazione altrui? Qui forse il Buddhismo avrebbe molto da dirci.
Bella domanda. Credo che ogni passione racchiuda in sé una parte di ossessione e anche una buona dose di bisogno di fuga dalla realtà. E non si tratta necessariamente di bisogno di approvazione da parte degli altri: spesso è semplicemente la necessità di ritrovare il contatto con una parte di noi stessi che abbia ancora un sentore di purezza che nella vita quotidiana non riusciamo a ritrovare, oppure semplicemente di allontanarci dal caos del mondo e rifugiarci in qualcosa di cui riusciamo a comprendere meglio le regole e le dinamiche. O forse solo di non volerci rassegnare alle nostre sconfitte e voler provare a respirare ancora qualche goccia di illusione.