I Pearl Jam sono arrivati al Wrigley Field, storica casa dei Chicago Cubs, la squadra di baseball di cui Eddie Vedder è tifoso sin da bambino, nell’agosto del 2016; ci hanno fatto due concerti in quello che era ancora tecnicamente il tour di supporto a “Lightning Bolt”, un disco che era uscito nel 2014 ma che tuttora non ha un successore.
L’ultima volta che suonarono in questo stadio era il 2013, ci fu un temporale piuttosto violento (in quella parte del paese non si scherza mai con il tempo) e lo show fu sospeso per tre ore. Nell’anno del ritorno i Cubs stavano andando piuttosto bene e poco prima che si tenessero i concerti si erano guadagnati il primo accesso alle World Series dal 1945. Ci sarebbe dunque già stato abbastanza da festeggiare se non fosse che la stagione si chiuse ad ottobre con un clamoroso successo in rimonta sui Cleveland Indians, portando così il titolo a Chicago dopo 108 anni di attesa.
Dopo i Red Sox, che nel 2004 spezzarono una maledizione che durava da più di ottant’anni, anche per i Cubs è dunque venuto il momento di entrare nella storia del baseball.
Eddie Vedder era a Cleveland, quella sera, e non avrebbe potuto essere da nessun’altra parte: il suo legame con la squadra è lungo e profondo, conosce i giocatori, l’allenatore Joe Maddon (una sorta di leggenda vivente) ed è amico personale del giovanissimo e geniale manager Theo Epstein, che dopo aver portato il titolo in quel di Boston si è superato mandando in estasi anche il popolo di Chicago. Nel 2008 il cantante ha scritto pure quella che è diventata una sorta di inno della squadra, “All The Way” e a Wrigleyville è praticamente l’ospite d’onore.
Danny Clinch è partito da qui, da questa bellissima storia di musica e sport, per raccontare due concerti che si sono inconsapevolmente rivelati l’anticamera di una delle più belle imprese agonistiche di tutti i tempi.
“Let’s Play Two” è una frase pronunciata da Ernie Banks, leggenda dei Cubs (c'è una sua statua fuori dallo stadio), durante il suo discorso per l’ingresso nella Hall of Fame, nel 1977. Banks era anche salito sul palco con Vedder e soci nel 2013 e sarebbe poi morto due anni dopo senza vedere il traguardo raggiunto dalla sua ex squadra.
Che cosa c'è esattamente qui dentro, dunque? Come dobbiamo guardare questo film, l’ennesimo su una band che è in giro da 25 anni e che non ha più nulla ma proprio nulla da dimostrare a chicchessia?
Sicuramente non ha senso guardarlo per le scene del concerto. La musica suonata è ovviamente la componente principale di queste due ore di pellicola ma non c'è davvero niente di imprescindibile, soprattutto per chi li segue da parecchio tempo. Al netto di una regia notevole, di un montaggio dinamico e di una qualità sonora eccellente, i pezzi ripresi sono purtroppo sempre quelli, da “Betterman” a “Black”, da “Alive” a “Corduroy”, da “Elderly Woman” a “Go”. Il colpo d’occhio dello stadio pieno è indubbiamente notevole, il singalong e la partecipazione del pubblico sono oggettivamente da pelle d’oca e qua e là ci sono anche dei punti di grande valore musicale: una “Crazy Mary” intensissima, con Eddie che prende alla lettera il verso “Drink the Bottle Pass It Around”, mettendosi a distribuire vino tra le prime file; una “Inside Job” che è invecchiata sorprendentemente bene, nonostante tutto, impreziosita dalle parole introduttive di Steve Gleason, ex giocatore di Football dei New Orleans Saints, amico di lunga data di Mike Mc Cready e negli ultimi anni ammalatosi di SLA; è stato impressionante vedere come la voglia e la bellezza del vivere siano in lui più forti di tutto, anche di una malattia che lo ha paralizzato e reso incapace di comunicare se non con lo sguardo, attraverso un sintetizzatore vocale. C'è stato un altro momento particolarmente denso di emozione quando, la prima sera, hanno suonato “Release” e il cantante si è rivolto a John, un uomo in prima fila che si era messo in coda quattro giorni prima proprio per sentire quel pezzo, che gli ricordava il padre da poco scomparso.
Ecco, ci sono in effetti questi momenti qui, che tengono alta l’attenzione e ti mostrano come mai, nonostante tutto, i Pearl Jam siano uno dei gruppi più importanti della storia del rock. Lo vedi anche osservando i loro fan in attesa fuori dai cancelli, la session di prova che fanno sul tetto di un bar di Wrigley (in una zona dove da anni la gente è abituata ad appollaiarsi per vedere le partite senza pagare), con tutta la gente assiepata di sotto e loro che si affacciano a salutare come se fossero tutti amici di lungo corso.
Tutto bellissimo, per carità. Ma gli anni passano, la botta non è più quella di un tempo, Eddie Vedder sopperisce con un carisma unico ma la voce non ce l'ha più da anni, inutile girarci intorno. Tutto questo per dire che, se volete sentirli dal vivo al top della forma, dovete procurarvi l’ottimo “Touring Band” del 2000 o il concerto al Madison Square Garden del 2003, con una scaletta pazzesca e un gruppo che era ancora in grado di andare a duemila all’ora.
“Let’s Play Two”, però, non è la registrazione di un concerto ma il racconto di tre storie, diverse e intrecciate tra loro: c'è un gruppo che è partito dal nulla e ce l’ha fatta in mezzo a mille difficoltà (nel corso del film viene rievocato il loro primo concerto a Chicago nel 1992, con tanto di immagini di repertorio), un ragazzino che voleva vedere la sua squadra del cuore vincere le World Series, pur sapendo benissimo che migliaia di persone prima di lui erano morte senza riuscirci. C'è, infine, la storia di un popolo intero, quello dei Cubs, che arriva a vedere quello che nessuno al mondo avrebbe mai ritenuto potesse accadere. La sezione finale, col racconto della rimonta contro Cleveland montato sulle immagini del gruppo che suona “All The Way” con una carrellata di vecchie glorie sul palco, sono oggettivamente potenti e confesso che non sono riuscito a trattenere le lacrime.
Sarà anche sentimentale, l’avremo pure visto in decine di film, da “Il sapore della vittoria” a “Ogni maledetta domenica” ma c'è così tanta bellezza, così tanta verità in questi momenti che, seppure sai perfettamente che non bastano da soli a dare un senso alla vita, intuisci che il senso della vita, in qualche modo misterioso, passa anche da qui.
Probabilmente i Pearl Jam sono giunti al capolinea. È difficile immaginare che riescano a sfornare un disco decente, che riscatti la delusione dello scialbo “Lightning Bolt”; è difficile immaginarseli a incendiare gli stadi a sessanta, settant’anni, sull’onda di una infinita e sterile celebrazione di loro stessi.
Così come è inutile chiedersi se i Cubs riusciranno a vincere ancora. La vita non è un film e quindi è ovvio che i fan, almeno la maggior parte di loro, vorranno vedere i loro idoli attivi ancora per molto, molto tempo. Allo stesso modo, i tifosi dei Cubs ritorneranno preso in uno stato di frustrazione, se a questo trionfo dovessero seguire nuovamente anni e anni di delusioni.
Ecco perché, a volte, sarebbe bello che la vita fosse un film. Perché se fosse così, Danny Clinch avrebbe scritto il più bel finale possibile. “Adesso avremo bisogno di un’altra canzone!”, dicono i giocatori ad Eddie durante il delirio del post partita, alludendo al fatto che “All The Way” è scritta dalla prospettiva di un tifoso che aspetta di vincere.
A pensarci bene, che si parli della vita o che si parli del film, è proprio questo il finale più giusto: vada come vada, c'è sempre bisogno di un’altra canzone.