Una telefonata che dovrebbe essere la peggiore delle telefonate, e che viene invece ricevuta come il migliore tra gli orgasmi.
Un viaggio che dovrebbe essere lugubre, liberatorio, e che diventa invece un folle trip prima, un incubo poi, con l'oppressione che sale, il senso di colpa e di impotenza che mina l'ennesimo tentativo di rimanere sobrio, pulito.
Un tuffo nel passato che mostra una prigione dorata, una famiglia all'apparenza perfetta in realtà formata da mostri che non sanno e non vogliono crescere un figlio, sfogandosi su di lui, abbandonandolo, nei peggiori modi possibili.
Un tuffo nel futuro poi, dove quel bambino è cresciuto, è diventato padre a sua volta ma senza imparare la lezione, senza affrontare i suoi traumi, affogandoli invece nell'alcool, nel cinismo.
E infine, con un'altra telefonata, con un altro corpo da osservare all'interno di una bara, il ritrovare la pace, finalmente, una conclusione.
Questa la parabola discendente e ascendente di Patrick Melrose, figlio di una nobile famiglia decaduta, dedito ai vizi e senza virtù, che sperpera denaro in bere, in droga tra un tentivo di disintossicazione e l'altro.
Una vita spezzata fin dalla tenera età dove proprio di quella tenerezza ci si approfitta, dove nemmeno chi si accorge che qualcosa non va, fa qualcosa, tanto meno chi a questo compito è chiamato per natura.
Una vita, quindi, tormentata e che tormenta, a cui si assiste tra fastidio, sofferenza e rabbia.
Mattatore in scena Benedict Cumberbatch chiamato all'ennesima grande prova: tra tremori, visioni, esagerazioni e lacrime sincere, il suo Patrick è un personaggio altamente sfaccettato difficile da definire, soprattutto in quel futuro in cui l'ombra paterna è ingombrante, ma che il buon Benedict gestisce e riporta facendo sussultare per la sua bravura fisica e gestuale prima che vocale.
A sostenere con lui la scena, un Hugo Weaving versione orco e una fragile e ingiustificabile Jennifer Jason Leigh.
Entrambi al loro peggio, entrambi così bravi a dar vita a genitori repulsivi.
Divisi fra l'Inghilterra più snob e insopportabile (incarnata dal petulante Nicholas Pratt), fra la New York dei grandi hotel e dei bassi fondi (che ricompare all'improvviso in un castello, facendo fare un tuffo al cuore) e la Francia da sogno che racchiude invece continui incubi, l'epopea di Patrick e di chi gli sta attorno pesa forse più del previsto, ma solo per temi scomodi e difficili, affrontati in realtà in modo splendido e splendidamente interpretati. Gli anni che passano e che scorrono avanti e indietro, le scene che si ripresentano alla mente come su schermo, sono potenti, di difficile digestione, ma gestite e condensate magistralmente dalla penna di David Nicholls che adatta la serie di romanzi semi-autobiografica di Edward St Aubyn.
Il livello tecnico è quello delle grandi occasioni, tra abiti, scenografie, location e fotografia che hanno il sapore della decadenza più bella, mentre la colonna sonora che spazia dai Clash ai Blur passando per Cat Stevens, gioca facile ma fa centro.
L'incubo e il trauma senza fine, il ricadere di colpe paterne continuo, fanno pensare all'impossibilità del lieto fine, invece un briciolo di speranza c'è, con una tenerezza che non si credeva più a portata di mano e che può davvero salvare.
Con un'altra chiamata, come in un circolo, ma che questa volta spezza catene invisibili.