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REVIEWSLE RECENSIONI
22/09/2022
Ozzy Osbourne
Patient Number 9
Patient Number 9 è il ritorno in grande stile di un'icona del rock che, nonostante l'usura del tempo, non smette di stupire.

Quando due anni fa, uscì Ordinary Man, undicesimo album in studio della leggenda Ozzy Osbourne, in molti, sottoscritto compreso, erano convinti che quello sarebbe stato il suo ultimo disco di materiale originale. Giravano, infatti, voci, e continuano a girare, di uno stato di salute, per così dire, non ottimale.  Invece, il paziente, che sembrava più di là che di qua, torna per stupire tutti, con un disco che è allo stesso livello, se non superiore, del suo predecessore. E lo fa con la consueta ironia, sbertucciando la morte e la malattia in un titolo che è tutto un programma, aprendo la scaletta con una risata mefistofelica, che sa di scherno nei confronti di tanti gufi, e gioca coi titoli e i testi delle canzoni, che possiedono, evidentemente, un intento apotropaico ("Immortal", "Dead And Gone", "Mr. Darkness").

Patient Number 9 è un ritorno in grande stile, però, non certo uno stanco riaffacciarsi sulle scene alla ricerca di uno smalto perduto. Il disco, semmai, esprime la volontà di ribadire quel ruolo iconico, interpretato durante mezzo secolo di storia del rock, vero e proprio anello di congiunzione fra epoche e generi. Se già in Ordinary Man erano presenti inaspettati ospiti (Elton John, Post Malone, oltre a Slash, Tom Morello and more), in questa nuova prova, Ozzy addirittura esagera, chiamando alla sua corte un parterre de roi di straordinari chitarristi (Eric Clapton, Zakk Wylde, Jaff Beck, Mike Mc Cready, Toni Iommi), e integrando la consueta, ottima backing band (un plauso al chitarrista e produttore Andrew Watt) con musicisti del calibro di Robert Trujillo (Metallica), Chad Smith (Red Hot Chili Peppers), Josh Homme (QOTSA), Duff McKagan (Guns & Roses) e il compianto Taylor Hawkins.

Una formazione di fuoriclasse che, è bene precisare, sono estremamente funzionali a un progetto, che, è bene precisare anche questo, sarebbe stato in piedi egualmente. Perché Ozzy, per quanto acciaccato possa essere, le canzoni le sa scrivere davvero. Certo, è tutto prevedibile e il canovaccio è scontato, ma non c’è nulla che suoni posticcio, nulla che non riesca a divertire tutti coloro che sanno cosa aspettarsi dal Principe delle Tenebre, e magari, piacevolmente sorprendere chi, da queste parti, non è mai passato.

Patient Number 9 è, infatti, un disco che rappresenta al 100% la cifra estetica di Osbourne: il ghigno metal di riff rocciosi, l’appeal radiofonico di ritornelli e melodie, echi dei leggendari Black Sabbath, il feeling inquietante con le tenebre, un mix seducente di malinconia e nostalgia, e, soprattutto, quella voce lì, probabilmente ritoccata in studio per far fronte all’usura del tempo, ma comunque ancora in grado di evocare i giorni di gloria.

Il tema è risaputo, ma lo sviluppo è eccellente, e si fa davvero fatica, soprattutto se come il sottoscritto siete fan della prima ora, a trovare punti deboli o non all’altezza di cotanta fama. Il disco inizia con i sette minuti della title track, che mette immediatamente in evidenza l’ottima ispirazione che attraversa tutto il disco: un brano rock a tutto tondo, animato da suoni moderni e da un ritornello di quelli da cantare insieme sotto il palco. Jeff Beck alla chitarra è un plus che innanza ulteriormente la qualità della canzone con una sventagliata di elettricità e tecnica, testimonianza iniziale di quanta nobiltà musicale sia presente in questo disco.

Il basso distorto che apre "Immortal" e il riff di chitarra che spinge il piede sull’acceleratore, consegnano all’ascolto un altro brano che si muove sul confine fra rock e hard, ed è tagliato in due dall’assolo di Mike Mc Cready, la cui chitarra è effettata al parossismo. Se "Parasite" parte con un passo pesantissimo, per poi aprirsi a un ritornello di presa immediata, "No Escape From Now" è un colpo al cuore per i fan dei Black Sabbath, le cui atmosfere cupe vengono replicate da un riff sulfureo (soprattutto quello che taglia in due la canzone) e da un ottimo lavoro alla solista del sodale di sempre, Tony Iommi.

E siamo solo all’inizio di un disco, la cui vitalità è straordinariamente contagiosa e in cui i momenti da ricordare sono davvero tanti. Eric Clapton regala un tocco bluesy al superbo e vibrante rock di "One Of Those Days", e la magia si eleva a status celestiale, "Mr. Darkness" è un’evidente autocitazione, una canzone che abbiamo ascoltato decine di volte, e ciò nonostante l’incanto resta il medesimo e la formula continua a essere vincente. "Nothing Feels Right" è un mid tempo molto melodico e malinconico, ma trova un’inaspettata sferzata di energia nell’assolo di Zakk Wylde (suono straordinario, tecnica e fantasia da vendere), che, a parere di chi scrive, è il miglior contributo esterno al disco, "Degradation Rules" è sabba nero al 100%, evocato anche dall’armonica che cita "The Wizard" e dal riff luciferino di Iommi, mentre la sezione ritmica di "Dead And Gone", composta da Trujillo e Smith, riesce a rivitalizzare un brano non proprio all’altezza del resto. Chiudono le atmosfere ultraterrene di "Darkside Blues", e la sensazione è che Ozzy voglia congedarsi dal suo pubblico tornando nell’alveo di quelle sonorità antiche da cui tutto è iniziato.

I’ll Never Die, Because I’m Immortal” recita Ozzy nel brano di apertura, Patient Number 9, ed è quello, che ovviamente, tutti ci auguriamo. Perché dischi come questi non sono icone vuote figlie di un glorioso passato, ma la testimonianza, semmai, che il sacro fuoco del rock può sconfiggere l’usura del tempo e mantenere la passione di un cuore affaticato, ma ancora incredibilmente vitale.