Ve li ricordate i Mannequin Pussy agli esordi e il loro sferragliante primo album, Gypsy Pervert, datato 2014? Ecco, se amavate quella band, sappiate che oggi molte cose sono cambiate. Già a partire, infatti, dal secondo album, Romantic (2016), il quartetto di Philadelphia affinava il suono e tratteneva l’irruenza, diversificando la proposta e arricchendo il repertorio con aperture melodiche. Non più solo punk e rabbia, ma anche rock, shoegaze e pop.
Con questo terzo full lenght, il primo rilasciato sotto l’egida Epitaph, la band completa l’inversione di rotta, ribadendo che la svolta di Romantic non era solo un esperimento estemporaneo. Con Patience siamo, quindi, di fronte a un lavoro sicuramente più maturo, in cui il punk, non temete c’è anche quello, è diventato solo parte di un’equazione in cui la potenza grezza e selvaggia degli esordi viene bilanciata da piacevoli melodie pop.
Le prime due tracce di Patience sono un colpo al cuore per coloro che amavano il suono duro degli inizi: la title track e la successiva Drunk II (qui c’è la chitarra di J Mascis ospite con un assolo dal suono immediatamente riconoscibile) aprono il disco con effervescenze indie rock, due belle melodie e un nostalgico retrogusto agrodolce. Fear/+/Desire, costruita sulla sovrapposizione delle chitarre (una acustica e una elettrica) apre a scenari shoegaze, suono sferragliante e melodia dolcissima, mentre High Horse condensa umori romantici che evaporano, poi, in un crescendo di mal contenuta rabbia (con una grande prova vocale di Marisa Dabice).
Ci sono, poi, anche brani che riportano in vita la virulenza degli esordi: i due minuti di Cream sono una fucilata punk rock, con la Dabice che santifica il pezzo con uno screaming feroce e sguaiato, mentre i deliranti 54 secondi di Drunk I e la penultima F.U.C.A.W. sono due assalti all’arma bianca in perfetto stile At The Drive In.
Pur senza rinnegare completamente il passato, è di tutta evidenza che oggi i Mannequin Pussy sono decisamente un’altra band e suonano un’altra musica. La furia punk resta, ma non è più il piatto forte della casa. Anzi, a ben vedere, le cose migliori di questo disco, breve (ventisei minuti di durata) ma decisamente intenso, sono i momenti più strutturati, quelli che sfumano il veleno prediligendo la melodia, o che alternano, all’interno della medesima canzone, diversi registri espressivi.
Una svolta, questa, che probabilmente non farà impazzire i rocker duri e puri, ma che sicuramente conquisterà l’attenzione di un pubblico più ampio.