Alla vigilia dei Grammy 2017, dopo aver appreso che il suo A Sailor’s Guide to Earth era finito tra i candidati nella categoria Album of the Year assieme a 25 di Adele (poi vincitore) e Lemonade di Beyoncé, in molti si sono chiesti: ma chi cazzo è Sturgill Simpson? Ex leader dei Sunday Valley e massimo rappresentante del neo-outlaw country con tre dischi alle spalle – l’ottimo High Top Mountain, che si rifaceva alle sonorità di Waylon Jennings; il successivo Metamodern Sounds in Country Music, capolavoro che ibrida country e psichedelia; e il concept album a tinte soul e r&b A Sailor’s Guide to Earth – all’epoca Simpson ci scherzò su, mettendo in vendita sul suo sito una linea di t-shirt con su scritto «Who the fuck is Sturgill Simpson?».
Sette anni, un Grammy (vinto proprio con A Sailor’s Guide to Earth nella categoria Best Country Album) e quattro dischi dopo – lo shredding selvaggio di Sound & Fury del 2019, la rivisitazione in chiave bluegrass del proprio repertorio in Cuttin’ Grass, Vol. 1: The Butcher Shoppe Sessions e Cuttin’ Grass, Vol. 2: The Cowboy Arms Sessions e il country alla Willie Nelson di The Ballad of Dood and Juanita – Sturgill Simpson nel suo store ha aggiunto una nuova maglietta, che recita senza mezzi termini: «Who the fuck is Johnny Blue Skies?».
Già, perché, dopo aver annunciato nel 2021 che The Ballad of Dood and Juanita sarebbe stato l’ultimo disco pubblicato a nome Sturgill Simpson (e in un post su Instagram di quattro anni prima aveva scritto: «La mia intera “carriera musicale country” è un’opera d’arte performativa basata sui personaggi, sotto forma di cinque concept album sequenziali che seguono tutti la tradizionale narrazione cristiana del viaggio dell’anima umana», dal cui computo vanno dunque esclusi i due volumi della serie Cuttin’ Grass), il cantante del Kentucky ora ha cambiato ragione sociale, scegliendo come nome de plume quel Johnny Blue Skies che i più attenti ricorderanno già citato nei crediti di A Sailor’s Guide to Earth («Bewere the dead pirate Johnny Blue Skies») e dell’anime che accompagnava Sound & Fury («The dead pirate Johnny Blue Skies presents»).
«Sturgill è servito al suo scopo», ha dichiarato recentemente Simpson a GQ, «ma è morto, se n’è andato, e io non sono più quel tipo di persona» – tanto che nella riedizione per il decennale di Metamodern Sounds in Country Music uscita a inizio anno, in copertina non c'è più la sua faccia ma la siluette di un teschio.
Insomma, è il classico caso in cui un artista utilizza una maschera – in questo caso uno pseudonimo, un alter ego –, per essere ancora più sincero, per scavare dentro sé stesso più a fondo di quanto non farebbe se lo facesse utilizzando il proprio nome. Ecco, quindi, che Passage du Desir è l’album più autobiografico mai pubblicato da Sturgill Simpson, più di A Sailor’s Guide to Earth (una sorta di lettera aperta al primogenito appena nato) e più di The Ballad of Dood and Juanita (che aveva come protagonista una figura che a tratti ricordava quella di suo nonno), dal momento che qui il cantante del Kentucky ha modo di fissare su nastro gli ultimi tre anni della sua vita, che a raccontarli sembrano la trama di un romanzo di Lawrence Osborne.
Nel 2021, a metà dell’Outlaw Tour di Willie Nelson, Sturgill si è rotto le corde vocali e ha dovuto cancellare tutte le sue esibizioni, comprese le date al Ryman Auditorium di Nashville e alla Webster Hall di New York. Il riposo forzato – tolto un primo momento che gli ha permesso di godere finalmente delle gioie della famiglia – lo ha però portato in un posto oscuro. «Ho sempre combattuto con quella che ora mi dicono essere distimia, una depressione ricorrente, di lunga durata e resistente al trattamento», ha confessato Simpson sempre a GQ. Bloccato a casa e incapace di parlare e tanto meno di cantare, un giorno Stugill ha capito che più si allontanava dalla sua casa di Nashville meglio sarebbe stato per tutti: «Così ho detto a mia moglie: “Devo andare, perché mi stanno venendo delle idee oscure”».
All’inizio si è trasferito in Thailandia, con la scusa di girare le scene del film Disney The Creator insieme a John David Washington (Simpson è stato scritturato anche da Martin Scorsese nel ruolo del contrabbandiere Henry Grammer in Killers of the Flower Moon) e ci si è stabilito per sei mesi. Poi si è spostato a Parigi, inizialmente una scelta casuale, dettata dal fatto che Simpson voleva soltanto sfuggire alla folla che stava invadendo Londra per il Giubileo della Regina. Ma quando Simpson ha visto la gente ballare per strada in pieno boulevard Beaumarchais durante la Fete de la Musique, ha percepito una profonda connessione con la città.
Una volta stabilitosi nella Ville Lumière – dove oramai è di casa, tanto che i suoi amici francesi lo chiamano le cowboy – dopo sei mesi Sturgill ha ricominciato a scrivere, riversando nelle otto canzoni che compongono Passage du Desir (dal nome di una galleria commerciale parigina nel X arrondissement) tutto quello che gli è capitato in questi ultimi anni.
Da più punti di vista, Passage du Desir – prodotto assieme al leggendario David R. Ferguson, ingegnere del suono di fiducia di Johnny Cash e collaboratore di lunga data di Simpson, e registrato presso i Clement House Recording Studio di Nashville e gli Abbey Road Studios di Londra – è in tutto e per tutto la continuazione del viaggio musicale intrapreso da Simpson con il debutto High Top Mountain e interrotto bruscamente con A Sailor’s Guide to Earth, come esemplificato dal pezzo che apre l’album, “Swamp of Sadness”, dove il protagonista è in balia dell’oceano – tema centrale del fortunato disco del 2016 –, perso tra confusione, pericolo e sofferenza.
Musicalmente parlando, invece, Simpson parte da quanto fatto in lavori come Metamodern Sounds in Country Music e A Sailor’s Guide, ma se lì il cantante del Kentucky ambiva a creare una sorta di “cosmic country” aggiornando la lezione di Gram Parsons attraverso il rinascimento psichedelico narrato in quegli stessi anni da Michael Pollan in Come cambiare la tua mente (Adelphi), qui Sturgill propone una musica più con i piedi per terra, una diretta emanazione dei "grown-ass man records" (che potremmo tradurre all'incirca come “dischi realizzati da uomini adulti”) pubblicati negli anni Settanta da gente come Van Morrison, The Band o Eric Clapton – insomma, un orizzonte sonoro che riporta tutto alla musica che usciva dai mitologici Shangri-La Studios di Malibù nel periodo in cui erano gestiti da Rob Fraboni.
Ecco, quindi, che nello smooth pop di “If the Sun Never Rises Again” troviamo i Bee Gees pre-disco music; in “Scooter Blues” – dove Sturgill rievoca le sue peregrinazioni su due ruote da perfetto sconosciuto a Bangkok («Gonna hop on my scooter and go down to the store. When people say are you him, I’ll say not anymore») – c’è una chitarra che rimanda in maniera inconfondibile a JJ Cale; mentre “Right Kind of Dream” – con quelle figure di piano Rhodes alla Christine McVie – sembra uscita da Rumous dei Fleetwood Mac.
Ma non mancano accenni al country e al bluegrass, da cui tutto sommato Simpson proviene, come in “Min Tea” e “Who I Am”, dove, tra un’accusa e l’altra all’industria musicale di Nashville («That old radio still won’t play me»), Sturgill confessa tutta la sua fragilità («I’ve lost everything I am, even my name»), una fragilità ampliata da “Jupiter’s Faerie”, una lunga ballata alla Elton John dove Simpson ricorda un vecchio amico scomparso prima che potesse riappacificarsi con lui.
Il disco si chiude con i nove minuti di “One for the Road”, una canzone che mette insieme le orchestrazioni eteree dei Procol Harum con gli assoli di chitarra alla Robbie Robertson (tanto che Northern Lights – Southern Cross della Band è il disco che forse più si avvicina a Passage du Desir per intenzioni ed esecuzione), a dimostrazione del fatto che Sturgill Simpson può mettere mano a qualsiasi genere musicale risultando sempre credibile.
«Quel ragazzo è un ascoltatore prolifico», ha osservato Ferguson, ricordando come Simpson sia probabilmente l’unico musicista transitato da Nashville a possedere la discografia completa dei Can. È il finale perfetto per un album che non è altro che una richiesta di perdono da parte di un’artista che ha passato l'intera esistenza controcorrente e che ha avuto bisogno di usare lo pseudonimo di Johnny Blue Skies per fare finalmente i conti con sé stesso.