“La storia non esiste
Siamo uno noi due
In esilio dal tempo”
(A. Camilletti)
Ho pensato a lungo a come raccontare una simile opera ma è difficile poterla riassumere ed è altrettanto facile cadere in sterili giochi di finta critica… e sono d’accordo con lui quando penso che questi moti di saccente letteratura sembrano essere, oggi più di ieri, sementi buoni a pontificare sulla conoscenza altrui, come fosse un’arte stessa quella di giudicare l’opera, opportunamente etichettata e catalogata, e con essa sentirsi quindi in dovere di dare una guida al viaggiatore di questi anni culturali che corrono nella più randagia confusione. Confusione forse proprio per l’eterno bisogno di dare etichette, spiegazioni e leggi di inquadramento sociale.
Dunque ho provato ad addentrarmi come avessi davanti un fitto bosco ma non è stato facile, anzi è quasi un divieto spirituale quello che percepisco. Ho provato fatica ma alla fine sono convinto che abbia ragione il saggio quando dice che non serve capire più di quello che c’è da capire. Ma al tempo stesso non serve restare in superficie, non ci riesco. Quindi chiudo gli occhi e penso a chi possa essere quell’io che guarda attraverso.
È stata la passione di Massimiliano Manocchia che mi ha preso per mano e che ha voluto fortemente che io conoscessi l’opera di Psycho Kinder, nome che copre con un velo di mistero l’anima e la penna di Alessandro Camilletti, autore, poeta, pensatore e tanto altro ancora potremmo dire di lui e forse sbaglieremmo comunque. C’è di fatto che dalla vita stessa lui ha la sensibilità un po’ fanciulla e un po’ avanguardista, anarchica nella cifra romantica del termine, di scattare delle polaroid di quel che si muove dentro, tra le ossa e sulla lingua. Una polaroid, dicevamo, che ferma il tempo e la luce e ne fa lirica poetica, ermetica, visionaria, a tratti psichedelica. Tutt’attorno cresce erba buona fatta di suoni che affida a collaborazioni disparate, per alcuni versi lontane di genere e di sostanza. Ma di nuovo cadiamo nel facile uso delle etichette quando invece, a prescindere da queste, il manto, che adorna e completa, rispetta sempre lo stesso bisogno che ha P.K. di vestirsi di infinita bellezza e di puntuale bisogno di esistervi dentro. L’ultima opera è rappresentata da questa coppia di singoli titolati “Un disegno infantile” e “All’ombra di metafore”. E la prestigiosa corona sonora, questa volta, è dipinta dalle mani di un maestro di avanguardie compositive come Lino Capra Vaccina. E si percepisce il chiaroscuro delle ombre e dei confini di tutte le cose, si percepisce il lento passo che un poco incespica e il fiato che si ferma per non perturbare lo scenario che ha di fronte… o di dentro… lo si vuole sentire, lo si deve catturare e Psycho Kinder ci riesce con una naturalezza che quasi sembra trasparente di artifici e calcoli matematici.
Istintivo mi giunge il suo richiamo all’essenza del pensiero, sospeso mi lascio permeare dai suoni che si fanno intimi e taciturni. La grazia della natura come anche l’essere uno, noi due, diviene un concetto che, a mio modo di vedere, porta con se la verità di queste due composizioni: ecco tornare sfacciato quel puntuale bisogno di completarsi e di ricongiungersi con la verità della propria esistenza, quotidianamente frammentata da etichette e saggisti, regole ed estetiche, da obbligazioni e divieti.
Ho provato ad immergermi lasciando da parte i vestiti e le luci. Ho iniziato a guardar meglio le ombre di tutte le cose e alla fine, carezzando in punta di piedi i contorni dei suoni, ho pensato fosse cosa buona e giusta imparare a tacere per lasciar parlare l’eterna grazia della natura.
La genesi di tutto: che cosa ha generato queste due composizioni? Attimi, istanti, ispirazioni… momenti rubati al caso o una progettualità ben precisa? Che poi penso sia il processo di ogni tua scrittura… o sbaglio?
Ogni progetto ha una sua genesi, non c’è un iter comune. Nel caso di “Un disegno infantile/All’ombra di metafore” il lavoro è partito dai due testi, nati da una visione estatica e da una riflessione sulla nostra condizione di “abitatori del tempo”.
Stessa cosa per la produzione precedente, realizzata con le musiche di Deca (“Diario Ermetico”). In passato diversi brani sono stati concepiti invece con il procedimento inverso. Ricordo di aver scritto quasi di getto le liriche di “Oltre il tempo” e di “Inviolabili e sacri” (due pezzi di “The Psycho Kinder Tapes” a cui sono molto legato) lasciandomi guidare dalle note di Ali Salvioni e di Giovanni “Leo” Leonardi.
L’incontro artistico con Lino Capra Vaccina, un maestro dell’avanguardia italiana. Com’è avvenuto? Ha portato la contaminazione che cercavi o sei stato libero di accogliere qualsiasi deriva?
Ho pensato a Lino come partner ideale per via del taglio più onirico e spirituale dei nuovi versi e l’ho contattato illustrandogli il progetto.
Sono un grandissimo estimatore dei suoi lavori che ritengo tra i più originali e intensi dell’intera scena musicale italiana degli ultimi quarant’anni. Basti pensare alla bellezza inaudita dei recenti “Arcaico armonico” e “Metafisiche del suono”.
La sintonia su come procedere è stata immediata grazie alla straordinaria sensibilità artistica di Lino e alla sua particolare predilezione per lo spoken word.
E una volta ascoltate le sue musiche, ti sei ritrovato? Hai chiesto il perché o il cosa ha ispirato le soluzioni che sono state incise sul disco?
Il primo ascolto è stato a dir poco emozionante. Non mi sono posto domande perché ho sentito immediatamente realizzato tutto il potenziale che i versi avevano da esprimere. Una rara simbiosi di parole e musica.
Ti chiedo della voce: non ti definisci un cantante perché ovviamente non canti ma declami i tuoi versi. Però: c’è un significato nell’estetica della tua voce? Questi delay, questi effetti che la rendono robotica… perché queste scelte a cosa alludono e di cosa parlano?
Sono scelte meramente estetiche. Gli effetti sono funzionali alle musiche e contribuiscono a creare una certa atmosfera.
C’è sempre tantissimo mistero o comunque un velo di non-detto dietro a testi così ricchi di visione e di letture. Parlandoti, sposo con te la voglia e la necessità di non svelarli per non restituire una chiave univoca di lettura del brano. Dunque va bene che ognuno ci legga quel che meglio sente? Ho capito bene? E non hai paura che qualcuno, proprio alla luce di questa libertà, possa interpretarlo in modo totalmente sbagliato?
Penso che un testo, se ispirato, possa comunicare emozioni in maniera molto immediata, quasi inconscia. Ovviamente ci deve essere una sorta di risonanza per apprezzare un’opera poetica o musicale, o un determinato mood anziché un altro. Poi ben venga se la comunione che si instaura è talmente forte da permettere di penetrarne anche il significato più profondo.
Trovo inutile il tentativo di sezionare i dischi con il bisturi se poi si è incapaci di coglierne la visione d’insieme, il senso autentico. Noto che chi lo fa (alcuni critici da cui solitamente mi tengo alla larga, ma anche musicisti o semplici fruitori che sui social devono sempre esprimere la propria opinione) ha spesso la pretesa di capire tutto dell’intera storia della musica pop/rock, pontificando su ogni genere e uscita.
Nicolás Gómez Dávila scriveva che “chi si ostina a voler capire più di quel che c’è da capire capisce meno di tutti.”
Parlando dei testi e del pensiero che li educa, mi hai accennato, tra gli altri, alla filosofia di Schopenhauer e di Nietzsche… ecco, facciamo un focus se ti va: da dove prende origine la tua scrittura?
Scrivo raramente e per necessità. Ci sono momenti, che possono essere molto diversi tra loro, in cui sento il bisogno di comunicare qualcosa, di dar forma a un’intuizione o a un sentimento che ha urgenza di esprimersi.
Gli autori citati insieme a innumerevoli altri filosofi, poeti e cantautori sono stati e continuano ad essere preziose fonti di ispirazione.
Ispirazione che nondimeno può arrivare anche dalla visione di un’area naturale (“Un disegno infantile”) o di un film di Bergman così come da un accadimento apparentemente insignificante.
Ne “All’ombra di metafore” parli esplicitamente di categorie che saltano, che in qualche modo perdono di significato. Nessuna omologazione… anzi libertà espressiva. Dunque ti chiedo: come ti rapporti al mondo di oggi che vuole etichettare ogni cosa? Come reagisci a chi cerca di etichettare anche la tua espressione?
Lascio scorrere il più possibile perché in fondo possiamo lavorare solo su noi stessi e perché etichettare fa parte del gioco quando una creazione diventa pubblica. Psycho Kinder è un progetto indipendente, di nicchia e poco sponsorizzato (non ho mai avuto una vera e propria etichetta discografica né mi sono mai avvalso di agenzie di promozione).
Se da un lato tutto questo non ha consentito di avere un’adeguata diffusione, dall’altro ha determinato – in un momento storico di grande confusione e di sovrabbondanza di proposte musicali – la selezione di un pubblico attento e appassionato e di addetti ai lavori (critici e dj radiofonici in primis) che hanno sposato la causa in modo disinteressato e quindi autentico.
Chiudiamo, promesso. Nella tua produzione hai affrontato stilemi diversi di musica e di genere sempre restando però confinato ad un mood assai intimo ed interiore. A questa espressione tra musica e poesia chiedi e affidi la tua personalissima evasione dalle regole quotidiane cercando così di salvaguardare un lato psichedelico, visionario, quasi infantile del tuo carattere? Insomma: Psycho Kinder è una fuga dalla plastica, una caverna di ombre dentro cui non si viene attaccati dalla fredda razionalità di ogni giorno?
Penso che con Psycho Kinder abbia espresso senza riserve i miei stati d’animo nel loro continuo divenire.