Nel 1990 esce questo Paris is burning, documentario di una giovane Jennie Livingston, una testimonianza molto potente nel portare alla luce, spiegando e dando la meritata dignità (non che vivendo nell'underground non ne avesse), al movimento culturale denominato ball culture o drag ball.
Siamo a New York, tra gli anni Settanta e Ottanta; la scena ballroom nasce nella comunità gay newyorkese a prevalenza afroamericana e ispanica, in un contesto di emarginazione e discriminazione ancora forte e molto sentito che in più, in quegli anni, faceva i conti con il dilagare della piaga dell'AIDS che come è noto reclamò molte vite in particolare proprio tra la comunità omosessuale. Gli appartenenti a queste realtà erano spesso ragazzi scappati di casa, soli, costretti a vivere una realtà di disagio economico e con molti rischi derivanti dalla situazione contingente esterna e da un momento storico generale che nella New York di quegli anni non era affatto facile.
In questo contesto, appunto non semplice né roseo, le ballroom rappresentavano un vero e proprio rifugio e avevano la funzione non solo di luogo di aggregazione ma anche quella di viatico nel creare un'appartenenza che tanti ragazzi gay, giovani, giovanissimi e meno giovani, a volte non trovavano nelle famiglie d'origine o nel tessuto sociale nel quale erano nati, al quale (non) appartenevano e dal quale venivano spesso finanche respinti.
Il fulcro del documentario della Livingston verte sulle gare di ballo che si tenevano in queste ballroom: erano esibizioni che poco avevano a che spartire con ciò che avveniva nelle discoteche o in altri locali al di fuori della comunità gay.
I drag ball erano più vicini a delle sfilate di moda ibridate con la danza; uno degli stili che poi si affermò anche presso il grande pubblico grazie a Malcolm McLaren e a Madonna che se ne appropriarono (Madonna anche tradendolo) con i video rispettivamente di Deep in Vogue e Vogue, fu proprio il Vogueing, uno stile nato e cresciuto nelle ballroom dove ballerini non professionisti imitavano, esasperandoli e coreografandoli, i movimenti e le pose (strike a pose) delle top model in passerella o delle fotomodelle, spesso veri e propri modelli di vita e icone da imitare per questi ragazzi ingabbiati in un'esistenza difficile.
Le ballroom non ospitavano solo esibizioni di Vogueing, le singole competizioni erano divise in tante categorie dove di volta in volta si poteva premiare l'eleganza e il portamento dei partecipanti, il confezionamento degli abiti, la perizia del gesto, la naturalezza con la quale questi ragazzi si immedesimavano nel genere femminile e via discorrendo.
I vincitori di questi balli ottenevano nella comunità riconoscimento e popolarità; i primi vincitori di queste competizioni rimasti poi nella storia del movimento fondarono a loro nome (parliamo di nomi d'arte) delle "house" alle quali i giovani potevano affiliarsi e all'interno delle quali spesso ragazzi in difficoltà trovavano una vera e propria famiglia, quell'appartenenza e quell'amore che faticavano a trovare al di fuori dei loro "confini gay".
La Beija, Xtravaganza, Dupree (Paris Dupree ispira il titolo del documentario), House of Ninja, sono alcuni dei nomi più famosi di queste house delle quali molti affiliati mutuavano anche il "cognome".
Paris is burning è un documento coinvolgente in quanto costruito in prima persona dai protagonisti di quell'epoca e di quel movimento. La Livingston si defila e lascia spazio alle testimonianze, a stralci d'esibizione, al contesto, alla narrazione diretta e a una serie di immagini di grande fascino che riescono a suscitare allo stesso tempo curiosità per un fenomeno culturale forse ancor poco indagato ma soprattutto empatia e tenerezza per i suoi protagonisti, alcuni dei quali andranno incontro alla tragedia mentre altri riusciranno a uscire da un confinamento imposto per arrivare finalmente alle stelle e al successo davanti ai media.
Ciò che di più toccante ci presenta il documentario è il desiderio di alcuni di questi ragazzi di avvicinarsi a modelli che nel loro intimo sanno essere inarrivabili (per qualcuno poi in realtà qualcosa si muoverà davvero), un desiderio di lusso, di "bella vita" che forse nasce come compensazione di esistenze spesso molto povere e difficili, esistenze dove essere per una volta la "regina del ballo" poteva regalare una gioia immensa.
C'è indubbiamente competizione, rivalità tra le varie house ma si intuisce anche una profonda solidarietà tra esclusi che nasce da un bisogno comune di amore, sicurezza, affetto, appartenenza, tutte cose che in qualche modo questo fenomeno culturale aiutava a soddisfare e fortificare.
La Livingston sembra riuscire a ottenere da questi ragazzi una confidenza e un'apertura totale, almeno all'apparenza molto diretta e sincera; la sensazione di immergersi con una certa verità all'interno di una cultura che per molti spettatori si rivelerà magari sconosciuta o poco più è il grande punto di forza di un documento agile (77 minuti) ma molto vivo e toccante.