C’è stato un momento, lungo più di un decennio, in cui la realtà alternativa dei Dream Theater senza Mike Portnoy non era più un paradosso temporale o un what-if degno della TVA di Loki, bensì una realtà concreta, con concerti sold out, album premiati e persino un Grammy Award (nel 2022, per la miglior performance metal con “The Alien”). Un universo parallelo in cui il batterista insostituibile era stato sostituito e tutto continuava come se niente fosse, con la precisione di una band che, a livello tecnico, potrebbe suonare le sue canzoni anche in assenza di gravità. Anche i fan avevano ormai (quasi) metabolizzato il fatto che l’iperattivo co-fondatore avesse lasciato il timone e che il gruppo – un po’ come nella puntata di Seinfeld “The Bizarro Jerry”, in cui Elaine incontra la versione alternativa e moralmente superiore di Jerry, George e Kramer – fosse andato avanti senza di lui, mantenendo intatta la propria identità, ma con leggere differenze.
Dopotutto, gli album realizzati in assenza di Mike Portnoy si inserivano perfettamente nel canone della band di Long Island, oscillando tra il buono (Dream Theater, Distance Over Time) e il discreto (A Dramatic Turn of Events, A View from the Top of the World), con occasionali guizzi sorprendenti (la sottovalutata opera metal The Astonishing) e abbondanza di mestiere – un elemento invero già presente nelle ultime uscite con Portnoy, vedi Systematic Chaos e Black Clouds & Silver Linings.
Poi, la variabile impazzita: Mike Mangini esce di scena (con grande signorilità, va detto), Portnoy ritorna e tutto si resetta, come se il decennio precedente fosse stato solo un esperimento su cosa succede quando si cambia una ruota ben oliata senza far deragliare il veicolo. E arriva Parasomnia, il disco che, per i fan dei Dream Theater, equivale a uno di quegli esperimenti mentali alla Philip K. Dick (La svastica sul sole): cosa sarebbe successo se Portnoy non avesse mai lasciato la band? E come suonano i Dream Theater con lui, dopo tutto questo tempo? Parasomnia – titolo che richiama i disturbi del sonno e suggerisce una liminalità tra sogno e realtà – sembra voler rispondere proprio a queste domande. Non è un concept album in senso stretto, ma c’è un filo conduttore che attraversa l’intero lavoro: la sensazione di trovarsi in uno spazio intermedio, sospeso, dove passato e presente collidono in un’esperienza quasi onirica.
Il disco comincia con la strumentale “In the Arms of Morpheus”, caratterizzata da un’apertura atmosferica che non può non far pensare a Scenes from a Memory. Il crescendo è efficace e, quando finalmente il pezzo esplode in un assalto sonoro, è chiaro che i Dream Theater sono tornati più coesi che mai. Il brano sfocia in “Night Terror”, che entra a gamba tesa con riff mastodontici e una batteria martellante che ci ricorda subito che Portnoy è tornato a far parte della band. Il brano è costruito su un’alternanza tra strofe serrate e un ritornello quasi epico, con James LaBrie che si destreggia tra melodie alte e momenti più drammatici. Interessante la parte centrale, in cui Jordan Rudess inserisce un assolo di tastiera che sfocia in un duello con la chitarra di Petrucci, una soluzione che richiama alcuni momenti di Train of Thought. Segue “A Broken Man”, un brano massiccio, che ricorda il materiale presente su Six Degrees of Inner Turbulence, con una sezione strumentale che vede prima Petrucci lanciarsi in un assolo dal sapore blues e poi Rudess cimentarsi in passaggi dal sapore retrò. La successiva “Dead Asleep” è invece una mini-suite di oltre dieci minuti che si sviluppa attraverso diverse sezioni: l’introduzione presenta un tema di pianoforte delicato che si evolve in un complesso intreccio di chitarra e tastiere. La sezione centrale offre invece l’ormai consueta improvvisazione Petrucci/Rudess, mentre il finale riprende il tema iniziale, ma questa volta con un arrangiamento dal sapore orchestrale.
E se “Midnight Messiah”, dopo un’apertura atmosferica, si sviluppa come il classico brano thash metal in stile Dream Theater, con riferimenti sonori che vanno a pescare ancora da Train of Tought (“As I Am”) e Scenes from a Memory, “Are We Dreaming?” è uno dei momenti più atmosferici del disco, un’introduzione sognante che fa da preludio al brano successivo, “Bend the Clock”, che ricopre il ruolo della tipica ballata alla Dream Theater. La melodia vocale di LaBrie nella prima parte del brano è tra le più memorabili dell’album, John Myung e Portnoy costruiscono una sezione ritmica serrata ma mai soffocante, mentre nella seconda parte Petrucci e Rudess si scambiano i soliti assoli con una fluidità impressionante, prima di una chiusura ad libitum sfumando. Tra parentesi, quanti metallari si scandalizzerebbero se un pezzo del genere venisse cantato a Sanremo? Quanti gradi di separazione esistono tra un brano così e uno – diciamo – di Laura Pausini o Céline Dion? La loro è spazzatura e questa dei Dream Theater è “vera musica” solo perché c’è una chitarra a sette corde e una batteria con la doppia cassa?
Il disco di ritorno di Mike Portnoy non poteva che concludersi con una lunga suite, “The Shadow Man Incident”, venti minuti di puro Dream Theater sound con un testo che riprende alcuni elementi di “Dead Asleep”. È il brano di gran lunga più ambizioso del disco e per certi versi anche quello che più incarna il ritorno di Portnoy: complesso ma accessibile, tecnico ma emotivo, è un viaggio che tocca tutte le sfumature del progressive metal, concludendo nel modo migliore un album ambizioso come Parasomnia. L’easter egg finale, poi, con il suono metallico di una sveglia che riporta l’ascoltatore alla realtà, arriva esattamente al minuto 19:28, ricollegando simbolicamente il disco a Scenes from a Memory.
Prodotto dal solo John Petrucci (per la prima volta senza Portnoy), Parasomnia mostra la volontà della band di tornare a un sound più organico e meno ipercompresso rispetto ai lavori precedenti, modernizzandolo un po’ e guardando alle produzioni dei gruppi prog-djent metal contemporanei, Haken e TesseracT su tutti. Il missaggio di un veterano come Andy Sneap, inoltre, valorizza la batteria di Portnoy, più presente e dinamica rispetto al passato recente, andando a sistemare un difetto che penalizzava i dischi registrati con Mangini.
Detto questo, cosa rimane, alla fine di Parasomnia? Sicuramente la sensazione di un ritorno importante, ma non nostalgico. I Dream Theater non stanno cercando di ricreare il passato, ma di riconnettersi con esso per andare avanti. E questo album, pur con qualche momento di prolissità – un vizio che i nostri non hanno mai perso –, è una dimostrazione brillante di cosa significhi evolversi senza perdere la propria identità. In un universo parallelo, magari, Mike Portnoy non se ne è mai andato, e i Dream Theater hanno continuato indisturbati. Ma in questo universo – quello in cui viviamo noi, quello in cui Parasomnia è uscito dopo un’attesa lunga quindici anni – il ritorno di Portnoy non è solo un evento storico per la band. È il segno che certe storie, anche quando sembrano finite, possono ancora riservare sorprese incredibili.