Chi, come il sottoscritto, ebbe modo di ascoltare (e innamorarsi di) Bloodstone (2022), esordio del chitarrista belga Thomas Frank Hopper, probabilmente si rese conto di avere a che fare con un giovane talento, a cui il futuro avrebbe riservato ampie soddisfazioni. Due anni dopo, se è vero che il grande salto nel panorama rock internazionale deve ancora arrivare, è chiaro, però, che, quanto meno da noi, grazie anche all’egida dell’italianissima Vrec Music Label, Hopper si è costruito una solida schiera di fan.
Non solo perché il progetto musicale del chitarrista belga pesca a piene mani dal bacino rock blues di settantiana memoria, che continua ad avere stuoli di estimatori, ma anche perché il suo evidente revivalismo suona tutt’altro che fiacco e stereotipato. Anche in questo nuovo Paradize City ci sono idee, freschezza, consapevolezza nella scrittura e, soprattutto, tanta passione. Tutti elementi, questi, che faranno drizzare le antenne ai tanti amanti del classic rock, che, da queste parti, troveranno pane per i loro denti.
A dimostrazione che il giovane Hopper abbia più di una freccia al proprio arco, questo eccellente sophomore ampia la gamma espressiva dell’esordio: se, infatti, Bloodstone era un album più spontaneo, immediato, grezzo e, nell’accezione migliore del termine, anche un po’ ingenuo, Paradize City risulta, invece, essere un lavoro più ragionato, le canzoni si sono arricchite di ulteriori elementi (l’hammond suonato dal bravo Maxime Siroul) e si percepisce la chiara volontà di provare a mettere un piede fuori dalla comfort zone di un rock blues aggressivo e sfrontato.
Accompagnato da una backing band perfettamente funzionale al progetto e tanto tecnica quanto potente (Diego Higueras alla chitarra, Jacob Miller al basso e Nicolas Scalliet alla batteria), il ragazzo belga mette in evidenza ottime qualità vocali (quel timbro di plantiana memoria, che spesso evoca il fantasma dei Led Zeppelin) ed è bravo ad armonizzare il proprio talento alla sei corde con la restante strumentazione, evitando di rubare la scena con inutili virtuosismi, ma mettendo la propria chitarra al servizio delle canzoni.
E’ evidente che dischi di questo tipo paghino debito ai grandi eroi del passato (Hendrix, Cream, i citati Led Zeppelin, etc.) e possano essere imparentati ad altre band coeve, affascinate dai suoni vintage (i primi Black Keys, i Rival Sons, per citarne un paio); tuttavia, sarebbe riduttivo francobollare queste dieci ottime canzoni solo come mero copia incolla di un retaggio lontano nel tempo.
In tal senso, Paradize City trabocca di fisicità e vibrante divertimento, i brani esibiscono un riconoscibile dna, ma centrano il bersaglio con inusitata efficacia e sicurezza, sia quando esibiscono con grinta muscoli oliati e guizzanti (l’uno due da ko delle iniziali "Troublemaker" e "Tribe"), sia quando si imbellettano di psichedelia anni ’60 (l’evidente riferimento ai Doors di "Chimera"), sia quando abbracciano un’incalzante e ruffiana orecchiabilità (la title track) o giocano con elementi folk (la splendida e zeppeliniana "Dog In An Alley").
E quando, come un treno in corsa che non fa fermate, parte la travolgente "April Fool", è evidente che Hopper sappia maneggiare con autorevolezza anche il blues più classico. Un ulteriore plus di un disco, che non inventa nulla, certo, ma esibisce una traboccante passione capace di abbracciare con ardore sessant’anni di musica rock.