Panfobia è la paura onnipresente e allo stesso tempo ignota, la paura di tutto e chissà, allo stesso tempo forse di niente. Questo il titolo dell’album di Petardo, nickname di Riccardo Salvini, dj e producer piemontese attivo ormai da una decina di anni.
È un album forte, come lo sono tutte le cose profonde, che possono arrivare a colpirci nell’intimo perché le capiamo e le accogliamo o perché hanno un effetto controverso e quasi doloroso. Come tutte le cose profonde, però, se non le capiamo e non ci arrivano a pelle possono anche rimbalzarci addosso, ne prendiamo le distanze ma inutilmente, perché queste si attaccano al corpo quasi come ami da pesca impigliati negli unici lembi di pelle che restano scoperti dalla nostra corazza, nei nostri lati più fragili e prossimi al dolore.
Non ho ben capito dove rimanga per me Panfobia. O forse non ho capito dove rimanga io, rispetto a ciò che comunica. Siamo di fronte ad un disco pieno di parole, suoni elettronici e chitarra elettrica. Ci sono canzoni dove i testi sono un colore all’interno di un quadro armonico, muovendosi su una melodia simile a quella della musica leggera che siamo abituati ad ascoltare; mi riferisco ad “Eterno ritorno”, “La Vendetta” o “Necromante”, momenti in cui le canzoni si mostrano scheletriche ma anche poggiate su un equilibrio più abituale per i nostri orecchi. Ma nonostante questo il risultato finale trasporta l’ascoltatore in un luogo post-apocalittico, facendolo trovare di fronte ad un musicista di strada del quarto millennio che parla della catastrofe avvenuta descrivendola però come ancora in corso, al presente.
Uno degli elementi che emergono maggiormente dal disco è infatti anche il suo aspetto recitato, dove la voce racconta e si racconta, parola per parola, facendo assaporare a chi ascolta tutte le lentezze, i ritmi, le difficoltà del parlare di un contenuto tanto crudo e (perché no) crudele. L’ufficializzazione parlata della morte di sé.
Ci sono discreti momenti, anche se ogni volta che arrivano è un po’ come se mi trovassero impreparato. Preferisco le mezze misure alle parole che tagliano. Quindi “Il nemico che avanza”, “Oltre la terra di nessuno”, “Deboli vacillanti difese” e la conclusiva “Chi firmerà la resa?” non fanno che incuriosirmi e al tempo stesso tenermi a distanza.
L’aspetto sonoro, specialmente il trattamento riservato alla voce, invece mi piace molto, con quel reverbero strettissimo che ci lancia in una stanza fredda, testa a testa con questa confessione che rimbalza sulle pareti di ferro battuto. C’è però tanto significato da prendersi sulle spalle. Magari sono io, magari ho bisogno di altri modi per capirlo e farlo mio.
In questo senso, la canzone che mi arriva meglio è quindi quella che si presenta con una forma intermedia: parte la base profonda e frammentata, il piano che sembra una lastra di ghiaccio fa da appoggio alla voce che non recita ma canta. “Fobia Aurea” è sicuramente la canzone che più mi colpisce, sia nei contenuti (armonici e testuali) sia nei modi con cui la produzione e il mix raggiungono la loro piena realizzazione, sposando appieno il colore grigio di questa lunga tela. È il fiore che trova se stesso non sbocciando ma appassendo. E forse è proprio questo il senso di tutto il lato nascosto dell’album, il difficile da accettare. La distruzione non come situazione post apocalittica di partenza, ma come fine e ultima realizzazione di sé.
Alla fine l’ho capito, ho superato la mia di paura, ho trovato qualcosa di mio e mi ha emozionato, smuovendomi una corda nascosta e profonda. Panfobia è sicuramente un disco profondo e difficile, addolcito nell’espressione vocale da un flebile rimando al circuito musicale indipendente e italiano di fine anni Novanta e consigliato a chi sia disposto a lasciarsi trasportare sia dalle frequenze elettroniche che dal peso delle parole. Un mondo futuro sin troppo dietro le porte, che è adesso, o forse, è già stato ieri.