Il nuovo progetto di Vasco Brondi si era già delineato con i live della scorsa estate, denominati “Talismani dai tempi incerti” da cui è stato tratto un omonimo disco dal vivo. Ma si potrebbe tranquillamente andare più indietro: “Terra”, l’ultimo disco de Le luci della centrale elettrica aveva poco o nulla in comune con quanto fatto in passato, soprattutto con i primi due lavori. A posteriori, il suo nuovo cammino artistico avrebbe anche potuto iniziare da qui.
Che poi è semplicemente l’applicazione di quello che sta andando ripetendo in questi giorni, raccontando le prime nuove canzoni dopo anni di silenzio: attraversare i decenni senza snaturarsi. Perché le cose che diceva in “Canzoni da spiaggia deturpata” oggi non potrebbe dirle più e giustamente ha smesso di dirle. Un conto è la rabbia e l'urgenza di quando hai vent’anni e giochi anche un po’ con la trasgressione, la frustrazione e una certa aurea di maledettismo. Un altro è diventare adulti, fare dei figli e comprendere che la realtà è complessa, che nel mondo c’è tanta bellezza e che la rabbia non è per forza il sentimento privilegiato da veicolare quando si scrivono canzoni.
Non è stato un disco facile da scrivere, questo, perché non lavora a comando e l'ispirazione sfugge ad un discorso deterministico e meccanizzato, come lui stesso ha detto. Naturale però che prima o poi ci sarebbe arrivato, ad un disco di canzoni nuove che portasse finalmente il suo nome in copertina: Vasco Brondi è sempre lui ma allo stesso tempo non ha più bisogno di un monicker o di un alter ego, per presentarsi al pubblico.
“Paesaggio dopo la battaglia” arriva quattro anni dopo “Terra” ma ne rappresenta di fatto un'ideale continuazione: se la title track offre una fotografia sulla situazione specifica del nostro paese, lo sguardo è sempre universale, compreso tra il tentativo di cercare l'eterno e la coscienza della propria finitezza.
La produzione di Taketo Gohara e Federico Dragogna apparecchia un suono equilibrato ed elegante, dosando bene le orchestrazioni e i cori (molto di più che nei lavori precedenti, si veda ad esempio l'effetto Brass Band sul ritornello di “Adriatico”) e traducendo il tutto in un lavoro discreto ma a tratti anche imponente. A metà tra la scrittura in forma di ballata che ammantava gli ultimi due dischi e un certo Indie Folk a la Bon Iver/Grizzly Bear, con l'aggiunta di un pizzico di elettronica in più (c’è un certo feeling ottantiano, nella cassa dritta e nel Synth di “Ci abbracciamo”), queste nuove canzoni confermano l'impressione per cui la rabbia e il disagio non sono più prioritari nella fucina creativa dell’artista ferrarese. Che sa ancora creare magnifici bozzetti di resistenza quotidiana e spazi cosmici, come nell'iniziale “26.000 giorni”, che ha il pathos e la drammaticità delle migliori cose di “Terra”; oppure “Parigi città aperta”, lettera commossa ad una persona con cui ha vissuto un pezzo di vita e che ha poi preso altre strade, una canzone che ha la delicata tenerezza di “Chakra” e che fa i conti senza rimpianti con quello che si è diventati e con quello che si è abbandonato lungo la via.
Tra le canzoni più riuscite c’è senza dubbio la title track, che mette insieme in un unico quadro partigiani che scendono dalla montagna, infermiere in corsia, rider alle prese con l'ennesima consegna, un generale tentativo di resistere in una nazione che cade a pezzi. È una delle due canzoni scritte durante il lockdown e che presenta espliciti riferimenti alla pandemia in corso; l'altra è la conclusiva “Il sentiero degli dei”, che cerca di fare il punto sulla situazione attuale, inserendo la pandemia all'interno di un ipotetico superamento dell'antropocentrismo.
Rispetto a prima, c’è un uso maggiore dello spoken word, con due brani esplicitamente costruiti in questo modo, entrambi storie di persone lontane, raccontate con delicatezza, commozione e il solito concreto realismo nei particolari: “Chitarra nera”, che era apparsa come primo singolo, funziona nel complesso meglio, soprattutto a livello di testo, mentre “Mezza nuda” vive di un'eccessiva dicotomia tra strofa e ritornello, che non sembrano perfettamente amalgamate tra loro.
In conclusione, chi si aspettava un radicale cambio di passo dopo la fine de Le luci potrebbe rimanere deluso anche se, sinceramente, proprio per le considerazioni fatte fin qui, era difficile attendersi davvero qualcosa di diverso.
È un disco che, come già detto, prosegue un percorso, piuttosto che inaugurare una nuova fase. Vasco Brondi si conferma un artista sensibile e intelligente, che ha saputo crescere come autore e maturare come uomo, metabolizzando influenze musicali e letterarie con grande consapevolezza, riuscendo a fondere suggestioni provenienti dalla religione occidentale (“Amate e fate quello che volete” è una chiara eco di Sant’Agostino, tra le altre) con la spiritualità orientale, senza per questo risultare ingenuo o stucchevole. È un uomo che ha sviluppato una propria personale dimensione interiore, che non assolutizza la propria carriera di musicista e la sua riuscita professionale ma che sembra molto più interessato a conquistare la pace e la serenità (“Ho imparato delle cose che ti potrebbero servire, ci sono questi precetti che seguo negli ultimi mesi, cammino nei boschi, se mi vedi non mi riconosci, ti ho già detto che mi sveglio all'alba e dormo benissimo, adesso”).
Ci sono dei difetti, ovviamente: la voce è il suo principale punto debole e nonostante giochi molto sull’espressività e riesca a dare il peso giusto ad ogni parola, nelle parti maggiormente cantate si trova sempre un po’ a disagio. E poi, in generale, le canzoni: ci sono brani davvero riusciti ma anche alcuni giri a vuoto (“Luna crescente”, la già citata “Mezza nuda”) e in generale non si raggiungono mai le vette di una “Coprifuoco” o de “Le ragazze stanno bene”.
Possiamo comunque ritenerci soddisfatti: per fare meglio c’è sempre tempo e stiamo comunque parlando di uno che ha fatto più di dieci anni a livelli che in pochi possono sperare di raggiungere.