Italia, anni di piombo.
Ci sono storie ancora da raccontare, ci sono attentati che hanno tolto vite e hanno tolto vitalità.
In questo caso, l'infanzia.
Padrenostro si ispira alla storia dello stesso regista Claudio Noce, il cui padre Alfonso fu vittima di un attentato.
Parte dalla sua esperienza, ma alza lo sguardo all'età di Valerio, che assiste, che vede, che non riesce a dimenticare.
Padrenostro potrebbe essere un trattato su come non essere genitori: assenze senza giustificazioni, silenzio e riserbo, il voler proteggere da notizie e aggiornamenti che creano solo ulteriori danni.
Valerio non capisce.
Non riesce a dimenticare.
Sembra trovare conforto nell'amicizia con Christian, che arriva all'improvviso dai giardini abbandonati, che si arrangia e lo segue pure in Calabria.
Sembra l'amico immaginario capace di sollevare dai tormenti, ma così, non è.
Ed è proprio in Calabria, quando i toni cambiano e la prospettiva si fa chiara, che le cose si sistemano anche per il film.
Il prima era un lungo preambolo, pesante nei suoi silenzi, soprattutto per come è difficile inquadrare la figura intepretata dal solito trasformista Favino, giudice con la pistola, criticato e applaudito, burbero e va da sé, silenzioso.
Lì, in una terra che regala scenari bucolici e decadenti, l'amicizia fra questi due ragazzini così diversi è un modo per saldare ferite ed evitare altro sangue.
Mostrando i cosiddetti martiri ed eroi che portavano addosso il peso di intere famiglie, impossibilitate a vivere, resipirare, crescere nella tranquillità.
Infanzie e matrimoni spezzati, sotto scorta.
Purtroppo, però, il finale torna a convincere poco, in un disequilibrio e in una lunghezza eccessiva che rendono la visione più faticosa del necessario.