L’aforisma “Scrivere di musica è come ballare di architettura”, erroneamente attribuito a Frank Zappa, non solo suona come una chiara provocazione nei confronti di chi esercita la necessaria, ma poco nobile, attività di giudicare l’arte altrui, ma racchiude anche un’incontrovertibile verità. E cioè, che la bellezza (dovrebbe essere) soggettiva e che nessun giudizio, neppure il più banale, può prescindere dalla peculiarità dei gusti personali.
Una predisposizione naturale dell’animo umano, questa, che diventa ancora più ingombrante quando si decide di imboccare la strada della recensione, possa essere di un film, di un libro o di un disco. Se riflettiamo sull’aforisma appena citato, dovremmo convenire tutti che parlare di musica sia tendenzialmente inutile, in quanto ogni singola parola che scriviamo è espressione solo ed esclusivamente delle nostre inclinazioni e della nostra esperienza, e quindi affetta da una parzialità non emendabile. Eppure, le recensioni servono perché portano conoscenza, perché divulgano sapere e perché stimolano la curiosità e la fantasia. Viene da domandarsi, quindi, se sia davvero possibile scrivere un pezzo di critica musicale (ma anche letteraria o cinematografica) che sia obiettivamente inattaccabile. La risposta, inutile girarci intorno, è chiaramente negativa.
Tuttavia, ci sono anche buoni recensori, che hanno le competenze per rendere verosimile un giudizio e utilizzano quei correttivi necessari per avvicinare il proprio parere alla luce del sole (della verità) senza fargli fare la fine del povero Icaro. Quali correttivi? Per poter giudicare un disco, ad esempio, non bastano né la buona volontà né le suggestioni dell’anima: è necessaria, invece, quella pluriennale esperienza d’ascolto capace di far sedimentare (e corroborare) un’opinione, che verrà poi rielaborata nel corso della vita e che ci permetterà di affermare, con un margine di errore relativamente basso, se, ad esempio, un disco è meglio di un altro e perché. Insomma, più hai ascoltato e più il giudizio, tendenzialmente, si avvicina al verosimile. Il recensore, in fin dei conti, è come un taxista: si deve muovere in settant’anni di storia del rock (o jazz o classica o quello che volete) con la stessa agilità e perizia con cui un taxista si muove negli ingorghi della metropoli.
Nessuno vi chiederà, ovviamente, di conoscere anche i più oscuri anfratti della città o di circolare con scioltezza nelle aree residenziali di nuova costruzione, ma il resto della topografia bisogna averlo compulsato a menadito. Vi fidereste, infatti, di un taxista che si perde nel traffico e che ha bisogno del navigatore per circolare? Magari, tra mille peripezie, vi porterà comunque a destinazione, ma la vostra stima nei confronti del professionista, a fine corsa, sarà probabilmente prossima allo zero. Insomma, bisogna conoscere e conoscere il più possibile: non solo dischi, ascoltati a migliaia, ma anche il contesto storico, culturale e sociale in cui sono stati concepiti. Dagli anni ’50 fino ad oggi, andata e ritorno. Diversamente, sarà impossibile spiegare rimandi, collegamenti, filiazioni, differenze e suggestioni che sono un corpo importante di ogni recensione che si rispetti.
Bisogna, comunque, fare attenzione: una conoscenza parziale della musica (legittima per un appassionato ma non per chi ne voglia scrivere) può non essere solo frutto di ignoranza (consapevole o inconsapevole che sia). La predisposizione peggiore per mettersi a scrivere di un disco, infatti, è quella di chi assurge il proprio sapere (di solito limitato) a verità assoluta. I suprematisti della razza ariana di un genere su un altro, i masturbatori della nicchia, gli stanziali, che vivono la loro passione fermi a un decennio, i fustigatori dei gusti altrui, questi Savonarola con la schiuma alla bocca che vi maledicono dal pulpito se ascoltate una canzone pop, i fabbricatori di curricula, che scrivono di gruppi astrusi solo per poter pavoneggiare una competenza sconosciuta ai più, e in generale tutti coloro che attribuiscono ai propri gusti il primato della cultura, tutti costoro, dicevo, fanno danni irreversibili alla musica e a chi legge di musica.
Perché “la cultura” – cito una battuta di Oscar Martinez dal bel film Il Cittadino Illustre di Mariano Cohn e Gaston Duprat – “è una parola che abbonda sempre nella bocca dei più ignoranti”. La cultura, a volte questa circostanza ci sfugge, è infatti uno spirito libero, selvaggio e indomito, non si fa irreggimentare da preclusioni e dogmi, ma erra vagabonda alla ricerca della bellezza. Non conosce né ostacoli né limiti, perché ha dalla sua parte l’ostinazione della curiosità e i modi semplici dell’umiltà. Sa strisciare nel fango, se serve, e non ha paura di alzare lo sguardo al cielo per guardare verso il sole.
Osserva, ascolta e scava, in modo che con gli occhi, le orecchie, la testa e il cuore possa arrivare là dove i denigratori di professione non arriveranno mai. E sarà capace di trovare e raccontare arte anche in una canzone di synth pop o di farsi, invece, beffe dei sofismi intellettualoidi di celebrati gruppi progressive. La cultura, se proprio si deve usare questa parola, è solo trasformazione: plasmare la materia e restituirla modificata e sotto una nuova luce. Con una forma, ovviamente, visto che l’arte dello scrivere non può prescindere da una lingua che sia scorrevole e, pertanto, comprensibile.
Non occorre, però, essere laureati o aver partecipato a corsi di scrittura creativa per scrivere una buona recensione; tuttavia, una discreta conoscenza delle regole ortografiche, della punteggiatura e della consecutio temporum aiuta a non far figure da cioccolatai. Tutto ciò, però, non è comunque sufficiente: serve anche uno stile, che, ahimè, o si presenta alla nascita come talento naturale oppure bisogna costruirselo con sacrificio, pazienza ed esercizio, tanto esercizio.
Il rischio, diversamente, è quello di partorire temi ben fatti ma privi di anima: è preferibile, infatti, qualche sconnessione grammaticale in un susseguirsi di immagini evocative rispetto a compitini ordinati delle medie che sciorinano, fra gli sbadigli generali, un susseguirsi di pettinatissimi “è bello”, “è brutto” o “somiglia a “. Tutto politically correct, nulla che riesca a dare un sussulto. E’ un casino, lo so.
Quando si scrive una recensione, però, bisogna tener conto di due cose, soprattutto. La prima è che, in un modo o nell’altro, si sta facendo un regalo a chi legge: non avvolgi mortadella in una pagina della Gazzetta dello Sport, come fa il salumiere, ma metti fiocchi su una colorata carta da pacco per rendere ancora più gradito il dono. La seconda è che, pubblicando una recensione, mandi una piccola parte di te stesso e della tua anima nel mondo. Entri nelle case delle persone, nei loro smartphone, nei loro pc o nei loro tablet. Qualcuno sarà disposto subito a darti credito e riparo, ti offrirà fiducia, ti apprezzerà e, attraverso quel meraviglioso rituale che è la condivisione, serberà di te uno splendido ricordo anche per il futuro. Molti, la maggior parte, invece, non vedranno l’ora di puntare il dito, di sbeffeggiarti, di trovare il tuo punto debole, una lacuna o un’imprecisione, e colpirti.
Bisogna ricordarsi, allora, di dare a quella piccola parte di noi stessi le armi necessarie per potersi difendere dal dileggio altrui: perché là fuori c’è un mondo che non fa sconti e una recensione scritta male e senza cuore può essere una ferita molto difficile da rimarginare. Ve lo dice uno che il taxi lo guida da anni, ma ogni volta è come se avesse appena preso la licenza: mi confondo, sbaglio le strade, vado spesso a istinto e se mi concentro sulle indicazioni del navigatore, rischio di ciccare i semafori. Carico tutti, però, proprio tutti, di ogni colore, religione e genere e, ogni giorno, mi metto alla guida e ripercorro le stesse strade, avanti e indietro, fino a quando, almeno quelle, non le ho imparate a memoria. Sto attendo e cerco di evitare incidenti, anche quando la notte è fonda e gli occhi bruciano di stanchezza. E sono sicuro che, continuando a guidare, prima o poi, arriverò a destinazione.