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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
10/01/2020
Interpol
Our Love To Admire
Il disco segna il passaggio della band a una major (Capitol) e rappresenta, nonostante i giudizi non proprio benevoli da parte della critica, anche il capitolo che regala agli Interpol una solida statura internazionale.

Fondati a New York nel 1997 da Daniel Kessler (chitarra) e Greg Drudy (batteria), gli Interpol si affacciano fattivamente sulla scena musicale statunitense solo dopo l'ingresso nella formazione di Sam Fogarino (subentrato alla batteria al posto dello stesso Drudy), di Carlos Dengler (basso e tastiere) e del cantante Paul Banks. Sono anni di tour sfibranti in cui Banks e soci presentano un repertorio composto essenzialmente da cover e da alcuni brani originali dalle sonorità eighties, che rappresenteranno il marchio di fabbrica della band.  Non siamo di fronte però a uno dei tanti gruppi che si limitano al copia e incolla: gli Interpol partono dalla lezione dei Joy Division, dei Cure, dei The Sound di Adrian Borland e dei Chameleons, ma modernizzano quel suono, creando atmosfere di maestoso lirismo gotico e derive malinconiche al neon. 

Centrale nelle canzoni Interpol è l’intreccio intricato fra le due chitarre, che danno vita a un suono stratificato, pieno, supportato da beat ansiogeni, dalla voce baritonale e distante di Banks e da epici declivi crepuscolari tracciati dalle linee di algidi synth. Quando l'etichetta Matador mette la band sotto contratto, gli Interpol si chiudono in studio per quasi due anni. Il risultato di questa maratona in sala di registrazione si intitola Turn On The Bright Lights (2002), manifesto del post-punk revival, che fa gridare al miracolo la stampa specializzata (per Pitchfork è il miglior disco del 2002) e proietta gli Interpol verso l'Olimpo degli dei del rock. Tra ritmiche pulsanti e riff serrati (Stella Was A Driver And She Was Always Down), nevrosi del nuovo millennio (Obstacle 1) e romanticismo notturno e denso (NYC), Turn On The Bright Lights propone una scaletta di cinquanta minuti che non si concede un momento di stanca e che affonda in atmosfere umbratili, febbricitanti, a tratti vaporose e psichedeliche, risultando a tutt'oggi non solo il miglior lavoro della band newyorkese, ma anche uno dei dischi più emozionanti della nuova avanguardia del wave-sound.

Antics (2004) è il seguito ideale del fulminante esordio della band. Un lavoro che ha diviso critica e pubblico, tra chi, nelle dieci canzoni in scaletta, ritrova una band al massimo dell’ispirazione e chi invece vede in questo sophomore la reiterazione stanca di quanto proposto nel primo disco. Di sicuro, Antics si presenta più convenzionale per alcune soluzioni marcatamente rock e per i testi più comprensibili e meno elusivi. E' il tentativo, peraltro riuscito, di accedere al grande pubblico, con una produzione che risulta più curata e canzoni che sostituiscono l'aura di mistero con una linearità a tratti addirittura rassicurante.

Non mancano tuttavia, gioiellini da conservare fra i migliori ricordi della band: la zampata rock di Slow Hands, i languori depressi di Public Pervert e le pulsioni pop di Not Even Jail.

Il disco, invece, che mette tutti d’accordo, ma in senso negativo, è Our Love To Admire, terzo lavoro della band, considerato (quasi) unanimemente dalla critica di quegli anni un album mediocre e di gran lunga inferiore ai suoi predecessori. Un giudizio che ha senso se contestualizzato all’interno della breve discografia di allora e se rapportato ai due dischi che l’hanno preceduto, ma che suona estremamente punitivo in senso assoluto: riascoltato oggi con la prospettiva di quasi un ventennio di carriera, Our Love To Admire acquisisce una lucentezza compositiva e un’eleganza formale prima offuscate dagli inevitabili paragoni del tempo.

Il disco segna il passaggio della band a una major (Capitol) e rappresenta, nonostante i giudizi non proprio benevoli da parte della critica, anche il capitolo che regala agli Interpol una solida statura internazionale (l’album debutta al quarto posto di Billboard 200 e vende 154.000 copie in una settimana). Meno cupo e umbratile di Turn On The Bright Light e Antics, Our Love To Admire mantiene vivo il mood malinconico che aveva contraddistinto i due album precedenti, ma lo innesca attraverso una formula canzone molto più strutturata che nei due primi capitoli e caratterizzata da un wall of sound chitarristico ancora più incline al rock. 

Il mood si fa meno elusivo e più esplicito, ogni struggimento viene palesato in modo diretto, senza filtri, con un susseguirsi di canzoni che puntano alla eterogeneità espressiva, pur mantenendo una costante linearità formale. Non tutto è di livello (Who Do You Think? e Mammoth sono canzoni così così, prive di mordente), e The Heinrich Maneuver è un singolo potente, dal piglio aggressivo ma dallo svolgimento prevedibile.

Tuttavia, nonostante qualche passo falso, Our Love To Admire è costellato di autentiche gemme, che anche a distanza di tredici anni continuano a suonare benissimo: l’albeggiare nebbioso e gli sprofondi di Pioneer To The Falls, il tintinnare della chitarra e la complessa progressione melodica Pace Is The Trick, la cupa Rest My Chemestry, graffiante e cadenzata, il basso pulsante e la ritmica quadrata di No I In Threesome, con Fogarino a dettare legge, restano, a guardare oggi la storia della band e i chiaroscuri dell’ultima parte di carriera, alcune delle migliori canzoni mai scritte da Banks e soci. Che dopo Our Love To Admire, molleranno la Capitol per tornare nel 2010 alla Matador con un nuovo disco (Interpol), questo sì, decisamente anonimo.  


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