Sotto certi aspetti un sogno di tanti amanti del genere: perché è chiaramente un miraggio immaginarsi i the Meters o gli Sly & the Family Stone registrati hi-fi per prendere ancora più da vicino quella loro sporcizia sonora e capire se il sapore per qualche motivo possa venirne modificato. Punto di vista del tutto personale: io non condivido in pieno questo feticismo da macchina del tempo, perché il sound di un’epoca è dato oltre che dagli strumenti registrati anche e soprattutto dalle macchine di registrazione. Quindi va benissimo quello che c’è, lascio da una parte degli esperimenti e mi fido di ciò che è arrivato fino ad oggi con le proprie gambe.
Diciamo dunque che gli Speedometer sono dei fedelissimi ambasciatori del genere, del sound, della strumentazione e del linguaggio sonoro.
Non c’è in verità una vena compositiva totale che stordisca all’ascolto, quindi alle lunghe sembra di avere a che fare più con un saggio generistico che con delle invenzioni colte dal proprio cilindro.
Ma neanche questo è sempre vero, perché in alcuni punti emerge qualcosa di molto interessante.
Allora facciamo ordine.
Sono un gruppo funk strumentale, con i brani firmati principalmente dal chitarrista Leigh Gracie, arricchito saltuariamente da qualche featuring vocale di stampo soul, r&b con qualche strizzata d’occhio al Medioriente.
La formazione affianca ad una ritmica solida di basso/batteria e percussioni inchiodata sul timing, chitarra ed organo che colorano l’armonia ed il ritmo alla perfezione. Spuntano i fiati in classica sezione a tre tromba, sax tenore e baritono ammorbiditi nelle frequenze da qualche tocco di vibrafono, flauto, violino, sitar ed altri esperimenti che giocano ad allontanare la possibile sensazione di monotonia e scolasticità, che nel genere è dietro l’angolo.
Nel primo terzetto di canzoni si affiancano subito tre mondi separati: si va dal funk/soul della opening track We gave up too soon cantata da Vanessa Jamie, alla successive e strumentali Abuja Sunrise (un classico funk strumentale alla The New Mastersounds) e la terza Kashmir. Su quest’ultima vale la pena soffermarcisi, almeno per sottolinearne quel picco alto di originalità di cui lamentavo la carenza all’inizio; ecco, qua non manca, questo è un punto ben ispirato, vicino costantemente ad essere una macchietta dell’India ma sostenuta da un impianto rodato e saggio.
Il successivo terzetto è aperto dal feat vocale James Junior con un timbro che trabocca black da qualsiasi poro. Let’s start a movement ricorda o tenta di accostarsi al Gets next to you di Al Green, come dicevo prima, registrato hi-fi. Qua lo potete sentire (Smile).
È rievocato dalla vena vocale, chiaro, ma soprattutto da quegli archi fitti e tenuti bassi nel mix che ti schiantano nella testa Let’s stay together e il mood di tutta quella meraviglia.
Edge of fear odora di riempimento o comunque di vena non all’altezza. Per dirla tutta, sembra una canzone scritta con penna e spartito, prima che suonata. Quel momento in cui dal vivo perdi volentieri la postazione per andarti a prendere la birra.
Diciamo che il funk è fatto di questi momenti più dedicati a chi sta suonando piuttosto che all’ascoltatore, è sempre esistito; in questo senso gli Speedometer sono stati davvero filologici.
Gli stacchi precisi di Time to slow it down introducono la bella voce di Najwa Ezzaher. Ed in questo caso il suo timbro fa la differenza, prende la canzone per mano, una canzone scritta in maniera discreta ma sul livello del resto dell’album e la porta nel gradino più alto. Un’interpretazione ed una scrittura melodica che fanno tutto loro ed il ritornello per la prima volta sa di vero ritornello.
Meravigliosa la qualità sonora della voce quando tira in alto e satura la valvola. Una piccolezza da nerd, ma per qualsiasi ascoltatore è un dettaglio emozionale inspiegabile ma trascinante.
Di questo momento vaporoso ne giova anche la seguente All in che si mette sulla scia e beneficia della buona aria sparsa nell’album, ancora con la fresca e giovane voce di Vanessa Jamie che sembra dare positività e un respiro pop al disco.
Il sound è supremo, va ricordato. Perché è vecchio ma filtrato da macchine e orecchie che sanno come fare a far funzionare il tutto.
Il nuovo terzetto continua con una strumentale dal sapore latin, Funky amigo che mi ricorda gli esperimenti caraibici dei Booker T. & the Mg’s con Soul limbo.
La canzone è incollata e ben scritta, ed oltre al sapore più tecnico ha un respiro che riesce a spuntarla e restare fuori dalla sabbia con la testa.
Mo’ Crunch chiude quest’ultimo terzetto in attesa del dittico finale dell’album. Neanche a farlo apposta qua siamo ancora in casa di Booker T. Jones, Duck Dunn, Steve Cropper e Al Jackson, ed ancora una volta la filologia non gioca a favore dell’album stancando forse sul più bello. È un ritmo che lievemente assopisce con tutta la dolcezza che questo sottogenere del soul funk ci regala, ma rilassa decisamente troppo. Saranno equilibri, di cui è fatto un album, o in questo specifico caso un genere come il funk. Quindi esiste anche il momento leggermente più riposante che prepara il terreno a quello più coinvolgente. Forse è per questo.
Siamo quasi alla fine; Look no further è accompagnata dalla bella voce di Najwa Ezzaher, che stavolta non riesce nell’intento di prenderci e portarci altrove. La canzone rimane lì con un sapore lieve di aperitivo. Penso che forse mi sbaglio ad aspettarmi chissà quale dote compositiva o emotiva costante e perenne in favore di una leggerezza che regge il genere come la struttura di una palafitta.
Mentre insceno questo tentativo di scusare qualcosa che non mi piace del tutto parte il telaio dell’ultima Mind Escape, si presenta bene e in tutta la sua leggerezza, sbandierata da un flauto traverso, ci accompagna mestamente all’ingresso per la fine di questo ascolto, come il migliore dei padroni di casa.
In definitiva non sono stupito da Our kind of movement, non mi è rimasto niente di imperdibile.
Eppure la sensazione di star ascoltando qualcosa che vada oltre al semplice mestiere c’è e voglio che vinca sul giudizio finale.
Rendono onore al funk con un progetto sonoro che hai a tua disposizione per tutto l’ascolto e quasi ti sfugge, e che rappresenta il tesoro che gli Speedometer hanno colto e sanno darti in dono, pur nell’alternanza di vena compositiva che spesso aleggia nell’album.