Our House. Il suo autore, Graham Nash, la ritiene noiosa. Forse era impazzito mentre la definiva così. Una canzone simbolo di un’epoca come poche. Forse la più celebre ballad del supergruppo west coast. La canzone per cui ai loro live, anche in quelli più recenti, ci si alza in piedi, la si canta insieme a loro e si piange di gioia e struggimento. Lo so perché ci sono stata a uno di quei concerti e il momento di Our House è davvero troppo emozionante.
Ispirata a un momento felice e sereno della relazione dell’ex leader degli Hollies con Joni Mitchell e scritta di getto, al piano, appena rientrati nella loro casa di Laurel Canyon, dopo aver fatto una passeggiata sulla Ventura Boulevard ed aver acquistato un vaso. Quotidianità, normalità, resa speciale e desiderabile dal condividerla con un amore che sembra fatto apposta per noi. Anime affini, sodalizio artistico, la magia dei sixties con tutto il loro carico ideale di amore, pace, condivisione, arte, bellezza, libertà. C’erano tutti gli ingredienti affinché la virtuosa cantautrice canadese e l’inglese più famoso della west coast dessero vita a una delle coppie più belle della storia del rock. Che poi fu una relazione di breve durata, come spesso sono le cose intense, producendo strascichi pesanti soprattutto per Joni, che venne però tanto ispirata da questo distacco da scrivere il suo sublime Blue.
Our House è una ballad per piano, semplice e resa preziosa dall’intreccio di voci, che la trasportano in quel ritornello mandato a memoria da generazioni “Our house is a very very very fine house, with two cats in the yard, life used to be so hard, now everything is easy ‘cause of you, and us.”
L’incipit e la chiusura coincidono: “I’ll light the fire, while you place the flowers in the vase that you bought today.” Parole leggere ma pregne di significato, che aprono la descrizione leggiadra dell’idillio amoroso e che la chiudono in maniera altrettanto tenue ma decisa, lasciando spazio solo alle emozioni di un ascoltatore commosso e tramortito da tanta bellezza. L’ode alla felicità domestica della controcultura hippie. Forse Graham Nash dice che è noiosa perché vuole schermirsi, come quelli che si rendono conto di aver creato qualcosa di troppo prezioso per poterlo accettare pienamente senza diventare autoreferenziali. Ma lui lo sa bene cosa significa questa canzone per chi ascolta. E così ad ogni live la ripropone. Esordisce dicendo “God bless you, Joni”. E credetemi, vedere lui che la suona e canta al piano mentre il buon Crosby la sussurra insieme a Stills, agitando lievemente le braccia per coinvolgere il pubblico è una delle emozioni più forti che io abbia mai provato in un concerto finora.