Con questo film si torna al nostro presente, Yamada offre una regia vivace che alterna spesso interni ed esterni, momenti comici (in modo imbarazzante, come spesso nel Cinema del Sol Levante) a dramma familiare dai risvolti sentimentali. Ototo è probabilmente il film più commovente tra quelli di Yamada visti finora, come sempre il regista si occupa della famiglia, nella fattispecie di quei contrasti che possono avvelenare per diverso tempo e a diversi livelli i rapporti tra consanguinei che invece di un porto sicuro diventano fonte di intimi dolori e comportamenti di cui a posteriori è facile pentirsi.
Tokyo. La famiglia Takano, composta dalla madre Ginko (Sayuri Yoshinaga) e dalla figlia Koharu (Yu Aoi), il padre della quale è morto in giovane età, gestisce una farmacia di quartiere. Koharu si sta preparando per il suo matrimonio con un giovane dottore, sia la ragazza che sua madre cercano di evitare che al matrimonio si presenti Tetsuro (Tsurube Shofukutei), fratello di Ginko e zio di Koharu, un uomo sfaccendato e totalmente incontrollabile quando alza il gomito, cosa che purtroppo succede spesso e che programmaticamente accadrà anche al matrimonio dove Tetsuro getterà vergogna su tutta la famiglia, soprattutto agli occhi dei consuoceri di Ginko inconsapevoli della parentela delle due donne con questo pessimo elemento. Questo sarà uno dei motivi del fallimento del matrimonio di Koharu, ma Tetsuro porterà sventura alla famiglia anche dal punto di vista economico, tanto da provocare una rottura totale nei rapporti con la sorella. Arriverà la malattia a mettere tutti gli avvenimenti sotto una prospettiva del tutto differente.
Questa volta Yamada indaga sui legami familiari, come già aveva fatto in Tokyo family, affrontando diversi aspetti dell'umana sofferenza. Anche se le vere protagoniste sono le due donne, la figura di Tetsuro fa riflettere sulla vita delle persone che non hanno le qualità per conformarsi a quelle che sono le richieste di una società stereotipata e appiattita su convenzioni, lavoro, status economico; su quelli che sono gli emarginati, a volte anche in seno alla propria famiglia, i deboli che lasciamo indietro e che fanno fatica anche solo a farsi voler bene dai loro cari. Il focus è anche sull'istituzione matrimoniale, sull'incomunicabilità data dai ritmi della società moderna, tema già affrontato da Yamada in altre opere, sui rapporti con gli anziani della famiglia (la nonna paterna che si sente sempre esclusa da tutto) e soprattutto sui legami che alla fine è necessario che superino ogni avversità e lontananza per confermarsi saldi. È un Cinema indubbiamente dei buoni sentimenti, mai cieco, mai ruffiano, mai mieloso, sinceramente commovente. Sappiamo tutti che non sempre in famiglia c'è il lieto fine, Yamada sceglie di farci vedere il buono, anche nel mostrarci un'organizzazione assistenziale e volontaria, parzialmente coperta dallo Stato, capace di accompagnare le persone più sfortunate in uno dei loro passi più importanti. C'è il privato e c'è il sociale, come spesso accade nei film del regista, come già si diceva in altre occasioni è un Cinema rasserenante quello di Yamada, capace, anche solo per qualche ora, di rimetterci un poco in pace con noi stessi.