È da almeno quindici anni che si dibatte sulla bontà delle reunion, fenomeno analizzato anche da Simon Reynolds in Retromania, dove l’autore si chiede come mai il rock abbia smesso di immaginarsi un futuro. Difficile dare una risposta precisa, perché se è vero che molte reunion hanno come unico scopo il facile sfruttamento di un brand di successo, bisogna anche ammettere che esistono casi in cui gli esiti artistici sono stati sorprendentemente positivi.
Senza timore di smentita, quest’ultima è senza dubbio la categoria in cui ricadono gli Alexisonfire, che dopo quasi tre lustri di silenzio discografico – interrotto soltanto dai singoli “Familiar Drugs”, “Complicit” e “Season of the Flood”, usciti tra il 2019 e il 2020 – hanno pubblicato ora Otherness, il primo album di inediti da Old Crows/Young Cardinals, uscito tredici anni fa.
Nel lasso di tempo in cui non hanno suonato insieme, gli Alexisonfire non sono stati con le mani in mano. E mentre il loro mito non faceva altro che crescere, con il conseguente consolidamento del catalogo, Dallas Green si è dedicato a tempo pieno al progetto City and Colour, trovando il tempo per pubblicare anche un album folk assieme a P!nk (You+Me, Rose Ave.), Wade MacNeil è diventato il cantante dei Gallows e ha fondato i Dooms Children, mentre Jordan Hastings è andato in tour con i Billy Talent. Tante esperienze diverse, a cui vanno aggiunte anche quelle molto più radicali di George Pettit, tornato sui banchi di scuola per diventare vigile del fuoco professionista, e Chris Steele, che ha abbandonato il mondo della musica per dedicarsi ai viaggi.
Tutto ciò è confluito in Otherness, che fin dal titolo vuole sottolineare l’alterità del gruppo rispetto al panorama musicale contemporaneo. Cinque strani individui che a diciotto anni fondano una band e quattro lustri dopo si ritrovano con dei dischi di platino appesi alle pareti di casa, concerti sold out ovunque, un proprio festival musicale, l’onore di aver giocato un ruolo chiave nello sviluppo del post-hardcore, ma che sanno benissimo di essere ancora quei cinque disadattati di St. Catharines (Ontario) che nel 2001 hanno deciso di chiamarsi Alexisonfire.
Il disco è nato nel modo più naturale possibile, nell’immediato post-lockdown, con gli Alexisonfire al completo riuniti nel cottage di Dallas Green a Toronto, desiderosi di suonare e raccogliere idee, mettendo il divertimento e la voglia di stare assieme come dei vecchi amici al centro del progetto. «Vediamo se siamo ancora in grado di scrivere qualche pezzo», si sono detti, cinque personalità molto diverse tra loro ma che hanno in comune la passione per la musica tutta, dal black metal all’elettronica sperimentale.
E la forza di Otherness sta proprio lì, nell’essere stato realizzato senza un vero scopo se non la musica stessa. Non ci sono obblighi contrattuali che ne hanno imposto la pubblicazione, nessun membro della band è in difficoltà economica e – al di là della contingenza pandemica – non ci sono particolari problemi nell’organizzare un tour di successo. Responsabilizzati dallo scioglimento del 2012, che Chris Steele in una recente intervista ha definito «necessario», gli Alexisonfire con Otherness hanno raggiunto un traguardo artistico toccato da poche band. Il disco, infatti, riesce nell’impresa di amalgamare alla perfezione le cinque individualità che formano il gruppo, e se c’è un lavoro che a ragione si può definire “della maturità” – ebbene – è proprio questo. Otherness non è infatti un album dove la band strizza l’occhio ai fan e cerca di emulare la versione più giovane di se stessa, ma piuttosto è un’occasione per interrogarsi su cosa voglia dire avere quarant’anni e suonare post-hardcore.
Una filosofia non molto diversa da quella che ha dato forma a un disco molto simile a questo, ovvero Freedom dei Refused, che nel 2015 ha sancito il ritorno della band svedese diciassette anni dopo l’epocale The Shape of Punk to Come. In quel caso la band di Umeå si è divertita a sfidare le aspettative, conscia di non dover dimostrare più nulla a nessuno, e lo stesso hanno fatto gli Alexisonfire in Otherness, sparigliando le carte e sperimentando con i generi. E se i tre cantanti non sono mai stati così disciplinati, ognuno pronto a rivestire il ruolo più consono alla propria vocalità – Pettit quello dello screamer hardcore, MacNeil dando libero sfogo al suo timbro death ‘n’ roll e Green cesellando le linee vocali più epiche e pop –, la cosa più bella è che ognuno spesso canta le parole scritte dall’altro, con il bassista Chris Steele autore delle liriche più incisive.
Il disco si apre con l’incedere marziale alla Killing Joke di “Committed to the Con”, che vanta un testo ispirato a “Which Side Are You On?”, canzone di protesta degli anni Trenta portata al successo da Pete Seeger, e prosegue con i due singoli “Sweet Dreams of Otherness”, chiaramente influenzata dal rock psichedelico dei Dooms Children di MacNeil, e “Sans Soleil”, una sorprendente ballata dalle tinte progressive. E se le radici hardcore riaffiorano in “Conditional Love” e “Survivor’s Guilt” (quest’ultima introdotta da delle interessanti tastiere alla John Carpenter), i pezzi più intriganti sono quelli dove la band gioca con le dinamiche e la psichedelia, come in “Blue Spade” e nella successiva “Dark Night of the Soul”, che inizia come un pezzo stoner per poi aprirsi in un languido break strumentale. Molto interessanti sono anche “Mistaken Information”, in tutto e per tutto un pezzo hypnagogic pop anni Ottanta, “Reverse the Curse”, un brano degno dei migliori Kvelertak, e la conclusiva “World Stops Turning”, otto minuti di saliscendi emotivo che chiude il disco su una nota di epicità.
Grazie a Otherness, si può dire che gli Alexisonfire abbiano vinto la scommessa con loro stessi. Per una band con un passato così ingombrante, pubblicare un album di inediti è sempre un azzardo. E al di là di ogni logica e calcolo, se in questi anni c’è una reunion che ha artisticamente senso, è proprio quella di questi cinque folli canadesi.