Non di soli Lars von vivono i Trier, ci sono per fortuna anche i Joachim (lo so, lo so, perdonatemi...). Joachim Trier è un regista danese (come Lars von) nato a Copenaghen (come Lars von), classe 1974, una ventina d'anni più giovane del suo illustre quasi omonimo. L'esordio del regista risale al 2006 con Reprise, film che insieme a questo Oslo, 31. August e al recente La persona peggiore del mondo va a comporre un'ideale trilogia della capitale norvegese.
Perché non Copenaghen? Come mai Oslo, 31. August visto che il film è tratto da un libro francese, scritto da un autore francese e ambientato a Parigi? Magia del cinema, dei cortocircuiti creati da ispirazioni e necessità, dall'universalità di temi, dal personale vissuto da ogni singolo artista che lo lega in particolare a qualche luogo, o forse, chissà... il libro in questione peraltro è Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, pubblicato nel 1931 (e già tradotto in immagini da Louis Malle) ma arrivato in Italia solo nel '63. Quindi siamo nel corpo centrale di questa ideale trilogia che vede nei panni del suo protagonista sempre l'attore norvegese Anders Danielsen Lie.
Anders (Anders Danielsen Lie) è un trentaquattrenne che sta seguendo un percorso di recupero a causa di una seria dipendenza dalle droghe (di ogni tipo) e dall'alcool. I suoi problemi hanno provocato dei seri fastidi ai suoi genitori e hanno incrinato il rapporto con sua sorella, tutti personaggi che nel film non vediamo praticamente mai. Anders ha ora la possibilità di recarsi a Oslo per sostenere un colloquio di lavoro, il programma gli ha procurato un contatto per un impiego molto interessante come aiuto editor per un giornale della capitale norvegese. Anders ha un certo talento con le parole, qualche buona esperienza alle spalle, il suo percorso di recupero sta andando bene e l'occasione non è affatto miserabile come quelle a cui si pensa quando si è appena usciti da un periodo devastante, anzi.
Gli anni difficili hanno però lasciato un segno profondo nel giovane che prima di potersi giocare la sua nuova occasione tenta il suicidio. Non avendo il coraggio di portare a termine l'insano gesto, Anders torna in comunità, cerca di riprendersi e parte per Oslo per sostenere il colloquio. Qui passa prima a trovare l'amico Thomas (Hans Olav Brenner) ormai papà e sposato con Rebecca (Ingrid Olava), i tempi delle serate pazze sono passati, i momenti più emozionanti nella vita di Thomas sono le sessioni di gioco a Battlefield, Anders coglie l'occasione per sfogare il suo malessere, l'idea di essere arrivato a trentaquattro anni e aver sprecato tutto, di aver fatto male alle persone a lui vicine, lo fanno entrare in una spirale di autoannientamento che metterà a repentaglio anche la sua occasione di riscatto. Poi la sera, gli amici, le tentazioni...
Film di lucido e freddo malessere, dove una mancanza di direzione e di prospettiva diventa cronica impedendo anche a un giovane capace, di bell'aspetto e di buona famiglia di trovare un equilibrio, seppur precario, e un posto all'interno di una società che in fin dei conti non lo sta respingendo. Anders è un protagonista smarrito, che non riesce a vedere un futuro, spezzato da un presente o da un passato confuso, autolesivo eppure capace in qualche modo di attrarre ancora il mondo (la ragazza conosciuta in città), con tutte le potenzialità intatte ma all'apparenza destinate a infrangersi e spezzarsi.
In apertura e lungo la durata del film Oslo è coprotagonista in una certa misura di questo viaggio lungo un giorno o poco più, ma anche il rapporto con la città è ambiguo, non netto. Anders sembra mancare di punti fermi nonostante i successi ottenuti con il programma di recupero e noi, come spettatori, viviamo un malessere che ci sembra inspiegabile, con fredda angoscia e impotenza, come può capitare nella vita. Anche l'ambiente esterno non riesce a permeare nell'animo di questo protagonista che ha un'immersione nella realtà contigua, forse anche alterata, nella bella scena del bar dove Anders è avvolto da frammenti di vita altrui, quelli che lui non riesce più a creare, ma nemmeno vedere come possibili, per se stesso.
Trier si muove bene grazie anche all'ottima prova di Anders Danielsen Lie, bel volto capace di tenere in piedi il film da solo, il regista ci accoglie e ci congeda con due scene molto significative, forti, emblema di una condizione universale, molto sentita nei paesi scandinavi, che porta alcune persone a un'esistenza di infelicità, non sempre e non per forza dettata da condizioni contingenti avverse.