Compositore globe trotter – di origine iraniane, ma nato negli USA e di stanza in Germania – Malakoff Kowalski gioca con i titoli ma fa sul serio con la musica. Onomatopoetika inanella dieci brani per solo pianoforte, minimali, che hanno un certo afflato che ricorda il primo Wim Mertens e si allunga fino a toccare le corde – a proposito – della poetica intimista, quasi isolazionista, del Mark Hollis post Talk Talk.
A differenza del numero da mentalista nel quale il millantato mago indovinerà la carta che avete scelto e poi rimessa tra le altre, nel caso dei pezzi di Kowalski sarà difficile anche per il prestidigitatore sonoro più smaliziato distinguere Ono da Atopo, Oéti da Tika così come i restanti titoli, tra di loro, del mazzo strumentale.
Onomatopetika a parte che, come contenesse tutti i brani sia linguisticamente che sonoramente, si allunga – nel tempo – e inarca la schiena – nella forma. Aggiungendo inoltre, forse a parafrasare un intagliatore del nulla per eccellenza, John Cage, la coda di quasi un intero minuto di silenzio.
La semplificata compostezza che domina Onomatopoetika è una strategia cercata: ciò che vuole è la struttura senza crepe, la solidità adamantina che va presa nel suo totale.
Musica rarefatta e crepuscolare, a tratti notturna in senso insonne – inversamente proporzionale alla serenità da notte di luna piena di Chopin. Ma di fascino.