“Would you ever even dream to go to the extreme
And would you ever want to be the one to rescue me
On the moon, that's where you'll find me soon.
All alone again
Unwinding there and praying that you'll find me there”
Peter Cincotti, classe 1983, nasce e cresce a Manhattan con la musica come seconda pelle. A tre anni già suona un pianoforte giocattolo, a nove compone e arrangia e prima dei quindici comincia a cantare. Un bambino prodigio, di chiare origini italiane, subito adottato e capito dall’Europa all’epoca del debutto su disco (2003) e, per sua fortuna, stimato pure in patria. Adorato da Harry Connick Jr., suo mentore, e seguito e prodotto dal leggendario Phil Ramone, il ragazzo si trova pronto, appena ventenne, a pubblicare una seconda prova, quella più difficile e importante, che deve proseguire bene il cammino iniziato. E On the Moon si rivela una bellissima sorpresa, una raccolta florida e ricca di novità, piena di sentimento e interpretata con piglio sicuro.
Non solo crooner e jazzman, il giovane artista si rivela buon compositore: quattro dei dodici brani portano la sua firma, siglati da idee fresche che sono il nerbo di queste sue sculture musicali, in un modo trasversale di celebrare la melodia. Scorrono così fluide “He’s Watching”, dolce lamento dedicato a una persona passata a miglior vita, “He smiles at me and I know he’s watching. He lives within the heavens and he leaves within my mind”, e la divertente “The Girl for Me Tonight”, ove si vagheggia la possibilità di vivere una “storia” solo per una notte, una sorta di “carpe diem” sentimentale.
Anche il romanticismo di “I’d Rather Be with You” ben si inserisce in una scaletta variegata, tuttavia il pezzo da novanta dell’opera è la sontuosa title track, elegante e raffinata. “On the Moon” è una poetica ballata dalle suggestioni malinconiche. Gli archi sollevano l’atmosfera, ci si sposta in alto in cielo a rincorrere le nuvole e a cercar di toccar con un dito la luna, mentre le liriche evocano con maestria, proprio con una metafora, come sia difficile vivere giù in basso sulla Terra, quando una parte di noi è attirata dal trascendente: “Saresti mai capace di sognare di andare all'estremo? E vorresti mai essere tu a salvarmi? Sulla luna, è lì che mi troverai presto. Di nuovo tutto solo. Rilassandomi e pregando che tu mi trovi lì. Aspettando la luna per te”.
Nel disco si risolve inoltre un jazz canonico esposto con la pacatezza della convinzione, secondo arrangiamenti stringati di brani celebri, ma che un pubblico numeroso come quello che segue Cincotti spesso non conosce. L’artista, difatti, non si lascia andare a cover alla moda, quasi a istigare un diffuso karaoke, ma sceglie perle più di nicchia, partendo da “St. Louis Blues”, una delle meraviglie della musica jazz e della musica tutta, attraversando il leggendario duo Goffin-King con “Some Kind of Wonderful” e pure con “Up on the Roof”, per continuare tramite le note di “I Love Paris” di Cole Porter.
C’è tempo anche per standard del calibro di “Bali Ha’i”, dal nutrito songbook a firma Rodgers/Oscar Hammerstein, un motivo riletto a partire da fine anni Quaranta da Perry Como, Bing Crosby e Sinatra, e di “You Don’t Know Me”, scritto da Eddy Arnold e Cindy Walker, di cui si ricorda la versione di Ray Charles del 1962. “Raise the Roof” è la sorpresa del lotto, tratta da uno dei più interessanti musical “contemporanei” di Broadway, “The Wild Party” di Andrew Lippa.
On the Moon si chiude con la storica “Cherokee” di Ray Noble, elargendo un Cincotti alla Diana Krall, che combina sapientemente Erroll Garner e Nat King Cole, con talento e particolare verve.
La sapiente scelta di arrangiamenti frizzanti, con interessanti partiture orchestrali e un eccellente contributo della sezione fiati, l’intuizione di aggiungere alla batteria (suonata in alternanza, a seconda delle canzoni da Kenny Washington e Mark Mc Lean) un grande percussionista come Bashiri Johnson si rivelano azzeccate, il tutto coadiuvato da session man di alto livello (su tutti Sam Yahel all’Hammond B-3).
Peter Cincotti si rivela così, grazie a On the Moon, uno dei migliori volti del neo swing e nel prosieguo della carriera le sue doti vengono confermate fino al giorno d’oggi, con l’ottimo Long Way from Home (2018) e il notevole Killer on the Keys (2023), un sentito omaggio ai musicisti che più lo hanno influenzato, da Jerry Lee Lewis a Billy Joel ed Elton John, tutti, guarda caso, straordinari pianisti. Un album veramente intrigante, quest’ultimo: l’artista americano ha colto l’occasione per tornare nell’amata Italia proprio lo scorso inverno per presentarlo, con una manciata di concerti in importanti location, come il Blue Note di Milano e il Teatro Garden di Rende (CS). Un felice ritorno nei luoghi delle sue radici.
«Sono molto orgoglioso delle mie radici italiane, che per metà sono piacentine per metà avellinesi. Nonna Angela, di Ferriere, è nata nel 1906, poi emigrò a New York dove conobbe mio nonno, originario di Cervinara. Ricordo che la nonna preparava gli anolini, ogni anno a Natale, anche se era a Manhattan ormai da molti anni. Da lei ho imparato a cucinare. E non dimenticherò mai quel pianoforte giocattolo che ricevetti in dono da lei quando avevo solo tre anni, in qualche modo ha segnato il mio destino! Non a caso è uno dei primi ricordi d’infanzia impressi nella mia memoria». Estratto da un’intervista del 2023 su liberta.it