“Alcune mie canzoni sono nate facendo surf e canticchiando le melodie che mi venivano in mente seguendo il ritmo delle onde”.
Davvero una storia particolare quella di Jack Johnson, nato e cresciuto nella North Shore di Oahu (arcipelago delle Hawaii). A un soffio da diventare surfista professionista, proprio un incidente sulla tavola gli preclude la gloria in questo sport, che comunque non smette mai di praticare. Il conseguente trasferimento in California, per completare l’istruzione all’università, lo conduce alla laurea in cinematografia, coronamento di una creatività trasversale che sfocia nelle sue svariate attività di fotografo, attore, regista e ultimo, ma non ultimo, musicista.
Johnson, infatti, comincia a strimpellare la chitarra già a otto anni e a scrivere proprie canzoni a dodici. Bob Dylan, i Beatles, Jimi Hendrix e Cat Stevens sono le influenze preminenti, ma il ventaglio di artisti preferiti si allarga rapidamente con Neil Young, Nick Drake fino ai Metallica, di cui è cultore dei brani più lenti. I primi lungometraggi girati, diretta conseguenza degli studi portati a termine, sono l’occasione per affinare le doti di songwriting, con composizioni costruite per fare da sottofondo alle sue opere. E un documentario del ’99, Thicker Than Water, diventa un cult: ovviamente si parla di surf, ma colpisce nel segno anche la soundtrack proposta. Segue un’altra produzione di successo, The September Session: Il dado è tratto, nel gennaio 2001 sopraggiunge il debutto, Brushfire Fairytales, un hit negli Stati Uniti, impreziosito dalla presenza in una traccia, "Flake", di un altro degli idoli di Jack, Ben Harper, forse il personaggio che lo ha più affascinato dal punto di vista creativo, sempre alla ricerca della perfetta sintesi tra un suono moderno e i richiami del tempo passato.
On and On è probabilmente il suo apice, vede la luce a metà 2003 ed evidenzia la veloce maturazione avvenuta come cantautore: cardine del progetto è la semplicità, con un giusto equilibrio tra ritmo e melodia, senza perdere minimamente qualità e contenuti. Tutto ciò rimane un’intuizione – e un’illusione, ahimè – notevole nel singolare momento che sta vivendo l’industria discografica, che in breve tempo calerà le braghe fino a liquefarsi sia metaforicamente, sia concretamente, perdendo la direzione dal punto di vista del valore reale, orientandosi esclusivamente in base a quegli “artisti” che garantiranno un quantitativo sufficiente di vendite. Il buon Johnson riuscirà ciononostante a conservarsi sempre “fresco” negli anni, anche se senza particolari sussulti, a dire il vero, mantenendo, però, sempre l’integrità artistica e pubblicando album quando avrà effettivamente qualcosa da comunicare. La colonna sonora per Curious George (2006) e il vivace All the Light Above It Too (2017) meritano una menzione, sicuramente tra gli altri, e il 2022 si prospetta interessante, visto il recente annuncio di un Summer Tour.
Ora analizziamo per bene questo lavoro di quasi diciannove anni fa, esempio dell’evoluzione del soft rock nei primi periodi del nuovo secolo. Sedici pezzi per quarantaquattro minuti: scivolano in un attimo, e hanno come fulcro l’incessante passare del tempo senza che si riescano a modificare la caducità delle cose e i difetti dell’umanità; si tratta di un tema ricorrente che viene proposto nella bellissima iniziale "Times Like These", nel cui testo viene più volte ripetuto con enfasi il titolo dell’LP, On and On, a sintetizzare come tutto scorra e nulla purtroppo cambi, e nei bozzetti acustici unicamente chitarra e voce "Cupid" e "Fall Line", manifesti di disillusione sentimentale e di deriva etico-sociale. L’atmosfera laid back creata musicalmente e a livello di strumentazione – solo basso, batteria e percussioni, rispettivamente degli instancabili Mario Podewski e Adam Topol, veramente bravi, affiatati e ben diretti dal produttore Mario Caldato Jr. – può sembrare un paradosso, visti gli argomenti trattati, come il ricordo di quel maledetto 11 settembre in "Traffic in the Sky", che fa tracimare il dolore in liriche poco concilianti e accusatorie, “Se si continuano ad aggiunger pietre presto non si troverà più acqua nel pozzo” e il disincanto in aumento, con il progressivo avanzamento di età, di "The Horizon Has Been Defeated". Quest’ultima dimostra pure la versatilità dell’autore, sprizzando un’atmosfera reggae che vive in simbiosi con l’impronta folk pop caratterizzante tutta l’opera e risulta fra gli episodi meglio riusciti, allo stesso modo dell’amara "Taylor", ritmato ritratto di come l’essere umano non accetti di adattarsi allo squallore creatosi per alcune pessime scelte di vita e trovi rifugio anche solo in un’illusione, sognando di poter scappare, e della più ottimistica "Wasting Time", pittoresco gioiellino che, stavolta, considera la possibilità di farsi beffe del tempo e, visto che fugge comunque, indipendentemente dalle nostre azioni, perlomeno “sprecarlo” godendosi le giornate con chi amiamo.
Uno dei punti di forza della raccolta sono la voce calda e avvolgente dell’artefice del progetto e la sua naturalezza nell’affrontare i concetti esposti, a volte appunto critici nei confronti del modello americano basato sul capitalismo sfrenato – "Gone" e "Cookie Jar" –, ma simultaneamente universali e raffiguranti i mali dell’intero occidente. Non mancano momenti scanzonati, affrontati con un pizzico d’ironia, come "Dreams Be Dreams" e "Tomorrow Morning", mentre si palesano maggiormente enigmatici e anticonformisti "Rodeo Clowns", motivo già inciso nel ’99 da G.Love e da cui tutto è cominciato un po’ più seriamente, e "Holes to Heaven" in cui Jack ricorda, e lo fa con poesia, quanto dilaniante fu un viaggio per girare uno dei suoi lungometraggi poi divenuti famosi.
“Mi ritengo un cantastorie folk. A volte utilizzo la fantasia, e mi risulta più facile parlare degli altri, ma c’è sempre una parte di me in ciò che racconto”.
La conclusione del disco è emblematica e rispecchia le parole del musicista hawaiano, molto riservato riguardo alla sua vita privata, di cui discute pochissimo nelle interviste. Tutto quello che vuole dire di sé e dei pensieri che gli frullano in testa si percepisce nelle canzoni, con quella timbrica da tono confessionale, quella rilassatezza apparente con cui sovente si dicono cose scomode o si dipingono infelicità sentimentali. La leggiadra "Cocoon" rappresenta perfettamente questo paradigma basato sul contrasto: pare un mare ricomposto dopo un uragano, vi si vedono i segni della burrasca galleggiare trepidi e, fuor di metafora, nella dolcezza effimera della melodia si narra invece di cuori infranti, alla ricerca di riscatto. "Mediocre Bad Guys" è caustica, cattiva e stilisticamente ricorda quanto Johnson adorasse Hendrix, prima dell’arrivo dell’epilogo con "Symbol in my Driveway", morbido attacco contro il consumismo, dove all’ironia di alcune frasi si sovrappone il distensivo rumore dell’oceano, contornato da delicate e pacifiche voci in sottofondo. Sì, perché per Jack Johnson tutto scorre e si compie, spesso inopinatamente, ma alla fine niente ha maggior significato di quell’immensa distesa azzurra che bagna le spiagge ogni giorno. La si sfida, la si ama e forse si possono scoprire tante verità solamente ascoltando quel costante infrangersi di onde, non c’è niente di più rasserenante e misterioso.