I Lamb Of God sono una di quelle pochissime band che sono sempre state in grado di mantenere saldo il timone e di seguire senza incertezze la rotta, tanto che non è un’eresia affermare che musicalmente non abbiamo mai fatto un passo falso. Qualcuno potrebbe obbiettare che la band originaria della Virginia conosce a menadito i suoi limiti e i suoi pregi e che, forti di questa consapevolezza, abbia rilasciato più o meno sempre lo stesso disco. Questa, però, sarebbe una considerazione ingiusta per un gruppo che ha fissato gli standard del metal per oltre due decenni, e che in realtà non è mai stato del tutto estraneo al cambiamento, come avvenuto, ad esempio, nel bellissimo VII: Sturm Und Drang (2015).
Questo nuovo Omens rappresenta, dunque, un ulteriore tassello in una discografia solidissima ed esprime al meglio quello che è il patrimonio musicale di una band che non sembra aver subito le angherie del tempo: l’aggressività, il lirismo, l'armonia dei loro riff sono tutte componenti di un tiro di fuoco che continua a pompare decibel con intelligenza e credibile rabbia.
Mentre il loro eccellente album omonimo del 2020 offriva un senso di speranza in mezzo alle tribolazioni del mondo, Omens è un album fortemente nichilista e cupo, e fornisce una riflessione pessimista sui giorni tristi che viviamo. La ferocia è ovunque, nella musica e nelle liriche.
L'opener "Nevermore" mette in chiaro subito le cose: è un pugno in faccia, un inno rabbioso, sono i Lamb Of God come sempre li abbiamo amati, a cui si aggiunge anche la sorpresa di un breve inciso melodico in cui Randy Blythe canta pulito. La miscela infuocata di thrash, death e groove metal che ha sempre contraddistinto il suono della band americana continua a non far prigionieri ed è ancora incredibilmente vibrante e seducente. E forse lo è ancora di più alla luce di testi poetici che profetizzano la fine del nostro mondo, come avviene ad esempio, in Raven, omaggio a Edgar Allan Poe, in cui Blythe canta: “Questa è una resa dei conti, senti i corvi urlare”.
E’ questo il tema principale di un disco che osserva l’implosione di una società, in cui la pandemia e alcune folli scelte politiche hanno generato molteplici conflitti e dolorosi tormenti interiori. E così "Gomorrah", posta a metà disco, paragona, quasi inevitabilmente, la deriva etica presa dal nostro mondo al racconto biblico della distruzione di Sodoma e Gomorra. Il pessimismo, insomma, regna sovrano.
In generale, Omens, come dicevamo all’inizio, non aggiunge nulla di nuovo a quanto conoscevamo dei Lamb Of God, eppure tutto sembra a funzionare a dovere, anche nei pezzi, per così dire, più prevedibili come "To The Grave" e "III Designs". Ci sono, però, anche un paio di gioiellini che possono essere annoverati fra le cose migliori mai scritte della band: il deathcore di "Ditch", tecnica e furiosa, e la bellissima conclusiva "September Song", il cui inizio molto melodico (ecco un tentativo di uscire dalla comfort zone), e la ritmica in leggero controtempo, deflagrano poi in una seconda parte feroce, corroborata dal vibrante duello fra i due chitarristi Mark Morton e Willie Adler.
Omens, in definitiva, è un ottimo disco di metal, che non deluderà le aspettative dei fan, che sanno esattamente cosa aspettarsi dalla band originaria della Virginia. Il merito dei Lamb Of God è quello di essere riusciti ad affrontare un tema prevedibile come quello dell’umanità post pandemia, convogliando rabbia e frustrazione in quaranta minuti potenti e incendiari. E per quanto non ci siano novità sostanziali, la formula non mostra la corda della ripetitività e la band mette a segno l’ennesimo, ottimo capitolo di una discografia, fin qui, impeccabile.