Quelli a venire potrebbero essere anni decisivi per il futuro del cosiddetto “Indie italiano”, che chiamiamo così anche se non ha più senso chiamarlo così. La pandemia da Covid ha spazzato via i concerti, provocando danni economici ancora difficili da valutare e non è escluso che parecchi artisti con una carriera avviata rischieranno di subire un drastico ridimensionamento. In più, ci avviciniamo ad una soglia temporale in cui gran parte dei nomi che si sono presi la scena cinque-sei anni hanno ormai smesso di essere un fenomeno nuovo. Perché se l’obiezione numero uno di tutti i detrattori è sempre stata: “Chi si ricorderà di Calcutta, tra dieci anni?” potrebbe anche essere arrivato il momento di scoprirlo.
È tutto ciò lo diciamo mentre i Thegiornalisti si sono sciolti (ancora presto per capire se Tommaso Paradiso decollerà davvero come solista) e lo stesso hanno fatto due band importanti del roster di Maciste Dischi, i Siberia e i Canova. Sopravvivere allo scoglio del secondo o del terzo disco, in effetti non sembra più un’impresa così semplice, nel momento in cui il singolo trionfa sull’album e gli ascolti si concretizzano in un’infinità di playlist a tema.
Al terzo disco Gazzelle ci arriva ora, quando ha oltrepassato la soglia dei trent’anni ma non ha ancora smesso di essere una next big thing: le due leg del tour di “Punk” lo hanno portato a riempire i palazzetti per la prima volta in carriera e quando l’ho visto al Forum di Assago lo scorso gennaio, appena prima che si bloccasse tutto, mi è sembrato di aver di fronte un artista che era riuscito a venire a patti con la propria fama ma non vi si era proprio del tutto abituato.
Ed è stato proprio quel concerto a farmi capire che, a dispetto di tutto il male si possa dire sul suo conto, è un artista sincero. La sua musica sgorga da un’esigenza creativa e comunicativa basilare, parla della vita e se può apparire fastidiosa è solamente perché c’è in ballo una distanza generazionale che non si può colmare.
Eppure, osservandolo in azione sul palco e ascoltando questo nuovo “Ok”, balza agli occhi e alle orecchie una verità semplice: alla fin fine, Flavio Pardini è un figlio del rock. Ha più volte confessato il suo amore per gli Zero Assoluto ma è innegabile che nelle linee basilari della sua scrittura e nel suo modo di approcciare il live, così spudoratamente chitarra-basso-batteria-tastiere, ci sia la lezione degli Oasis e di un certo Brit Pop in generale.
Questo nuovo disco, annunciato a metà gennaio dopo una manciata di singoli che ancora non si capiva di che cosa avrebbero fatto parte, ci comunica due verità piuttosto importanti: da una parte una netta maturazione pur nella continuità della proposta; dall’altra, l’inserimento di qualche nuovo accorgimento, utile soprattutto per quando sarà urgente arginare l’obiezione: “Alla fine continua a fare le stesse cose”.
Prodotto come sempre da Federico Nardelli, a questo giro coadiuvato da un nome storico come Giordano Colombo, “Ok” vive di arrangiamenti semplici e quasi scolastici, ha la solita scrittura di Flavio ma è nel complesso più maturo e meno affettato del suo predecessore. Laddove in effetti “Punk” tendeva a fare sfoggio di cliché e a caricare di toni “ruffiani” certi episodi, qui risulta tutto molto più sobrio, come se la priorità fosse comunicare una fase del proprio vissuto con la massima sincerità possibile, piuttosto che ammiccare al proprio pubblico. Niente cose in stile “OMG” e “Sbatti”, dunque; piuttosto, confessioni malinconiche come “Destri” (ad oggi il picco qualitativo del Gazzelle autore, almeno dal mio punto di vista), “Blu” e “Scusa”, melodie tristi a confermare l’appellativo di “preso male” ma una serietà di fondo nell’evocare dettagli tratti dalle sue storie personali, una padronanza decisamente maggiore degli elementi essenziali che rendono efficace una canzone.
C’è però anche un uso piuttosto disinvolto dei Synth, quasi a voler traghettare il proprio songwriting in altri territori: in effetti, canzoni come “7” e la title track funzionano benissimo, indovinate come melodie e capaci anche di far intravedere scorci inediti di territori già ampiamente battuti. E poi quel featuring di tha Supreme in “Coltellata” che rappresenta forse il modo migliore per rinnovarsi nella continuità: l’enfant prodige dell’Urban nostrano qui non produce ma si limita a prestare la sua voce e i suoi soliti testi tra il verbale e l’onomatopeico ad una classica ballata a la Gazzelle. Due stili e due mondi diversi ma un esito sorprendentemente fluido e naturale: se esiste una strada al rinnovamento dell’It Pop, passerà senza dubbio da questo tipo di contaminazioni ma anche da un utilizzo più libero e disinvolto delle melodie vocali, come accade ad esempio in “La-crima” o in “Belva”, che non cercano l’effetto ammiccante a tutti i costi, che sono introspettive, la prima quasi straniante, e che non hanno neppure un vero e proprio ritornello da cantare a squarciagola nei palazzetti. È un po’ l’effetto che aveva ricercato con “Greta” e “Coprimi le spalle” ma qui c’è stato decisamente un passo avanti.
Quindi, proprio nel momento in cui sembrava che avesse già detto tutto, proprio quando non pareva possibile che arrivasse qualcosa di diverso dal solito disco identico ai due precedenti, Gazzelle ha sfornato un lavoro che non solo è il migliore della sua carriera fino a questo momento ma che lascia intravedere una crescita che potrebbe portarlo a rimanere sulla cresta dell’onda ancora per un bel po’.
Scoppierà, probabilmente, la bolla di questo “Nuovo Pop italiano”, per dirla con una canzone di quei Siberia che citavamo all’inizio; se scoppierà, tuttavia, alcuni nomi saranno giocoforza destinati a rimanere. E quello di Gazzelle sarà tra questi, ne sono fermamente convinto.