“Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio.”
(Everyman, Philip Roth)
Al termine della visione di Vortex ho ripensato alle ultime righe del romanzo di Roth che posseggo nell’edizione Einaudi con copertina nera, rarità che differisce dal consueto color bianco che storicamente caratterizza le pubblicazioni della casa editrice torinese. Il regista franco-argentino, dopo più di due ore di visione in split screen in cui ha obbligato l’occhio dello spettatore a scegliere quale personaggio seguire e quale narrazione adottare, lascia comunque il riquadro nero dedicato alla persona morta, mentre continua la vita dell’altra protagonista.
Vortex è un viaggio al termine della notte del Cinema, un immenso tour de force neurologico che ci mostra la vita di una coppia di ottantenni: lui un sorprendente Dario Argento nella parte di un critico cinematografico che sta scrivendo un libro sul rapporto tra cinema e sogni, lei una psichiatra in pensione in balia dei primi segni di Alzheimer, interpretata da una bravissima Françoise Lebrun. Film monstre anche solo per la totalità degli ambienti che ci vengono mostrati, così pieni di libri, riviste, oggetti, quasi un museo, un tempio dell’imbalsamazione.
Spesso, nelle peregrinazioni dei due attori tra le diverse stanze della casa, si intravede la locandina di uno dei primi film di Jean-Luc Godard, Une femme est une femme; Noé, da appassionato della storia del Cinema, non a caso sceglie la pellicola di un regista la cui importanza teoretica per apporto innovativo alla Settima Arte è fuori discussione. Questo richiamarsi ad una stagione gloriosa, quella della Nouvelle Vague è un altro segnale del tempo che è passato, di un mondo che scompare ora che Godard non è più tra noi. In Vortex l’attrice che impersona la donna affetta da demenza, altri non è che l’attrice Françoise Lebrun, una delle due protagoniste di un altro tour de force del 1973, La maman et la putaine di Jean Eustache, che al termine era scelta come compagna per la vita da Jean-Piérre Leaud dopo essersi diviso tra le due donne[1].
Un frame da La maman et la putaine (1973)
In questo senso l’ultima pellicola di Noé è un ricollegarsi ad una storia a lui precedente, forse per metterci la parola Fine perché, come faceva dire ad uno dei personaggi di un altro suo film[2]: “Il tempo distrugge tutto”. Sì, il tempo non ha pietà, ed è inesorabile in questo senso la scritta che compare a inizio film (anche questa è una chiara ascendenza godardiana) con quella dedica “A tutti coloro il cui cervello si decomporrà prima del cuore”.
Dream a little dream on me
Il film inizia con una ripresa della città dall’alto per poi avvicinarsi sempre più ad un agglomerato di case ed entrare, infine, nell’abitazione dei due anziani, i quali - per la prima e unica volta nel film - si guardano da due finestre prospicienti, ripresi nella stessa inquadratura. “La vita è sogno, no?” chiede lei mentre il marito le versa un bicchiere di vino; “Sì, un sogno dentro a un sogno” risponde Dario Argento, prima che lo split screen li divida per tutta la durata del film. Dopo questa scena la videocamera si sposta con un movimento laterale, abbandonando i due personaggi per poi fermarsi sull’immagine di un muro di pietra, probabilmente presente nel terrazzo dove i due sono seduti. Sembra una lapide e infatti ecco apparire sovrimpressi come titoli di testa i nomi degli attori con la loro data di nascita, seguiti da quella del regista, 1963 (in piena Nouvelle Vague), gesto che ben si inquadra nel cammino inesorabile del tempo.
A queste immagini segue un inserto video di Françoise Hardy che canta “Mon amie la rose”, conferendo un suono al senso della fine che aleggia sin dalle prime immagini.
“Siamo così poca cosa, la mia amica rosa me lo ha detto stamattina, all’alba sono nata (…) sono fiorita, innamorata nei raggi del sol, mi sono chiusa per la nottata, e mi sono svegliata invecchiata” (…) il mio creatore mi ha fatto piegare la testa e sento che cado (..) ho un piede nella tomba, non esisto già più.”
Dopodiché inizia lo split screen con immagini della coppia mentre dorme, accompagnate dalle parole di una trasmissione radiofonica (?) in cui degli esperti in materia parlano dell’elaborazione del lutto dopo la scomparsa di una persona cara e delle esperienze soggettive di contatto con il defunto, processo che porta ad un’introiezione definitiva della presenza del proprio caro. Mentre sentiamo discettare di come l’Occidente abbia rimosso le pratiche ancestrali e allontanato la percezione della morte dalla società, scorrono le immagini della coppia al risveglio con il vagare per le stanze seguendo i rispettivi preparativi. Sembra di essere nella cucina descritta da Don De Lillo in The Body Artist, in cui avevamo una donna che elaborava il lutto della perdita del marito suicida mediante una performance mentale che lo faceva rivivere mediante la suggestione di un intruso al piano superiore della casa.
“Quell’ultima mattina accadde che fossero insieme in cucina e si sfiorassero di continuo per prendere oggetti dagli armadi e dai cassetti e poi si fermassero al lavandino o al frigorifero l’uno in attesa dell’altra, ancora un po’ vischiosi della materia dei sogni.”
(The Body Artist, Don De Lillo)
Diversamente da ciò che accade alla protagonista di De Lillo, in Vortex lo stato mentale appartiene a due mondi non più collegati; la coppia viene separata dallo split screen per evidenziare i due percorsi paralleli.
“There is a light that enters houses with no other house in sight” (David Sylvian)
I due corpi non si sfiorano più, vagano per le stanze in un flusso di perdita di sé, qualcosa di simile alle sensazioni che da sempre mi provocano i primi versi della poesia di T. S. Eliot, The Lovesong of J. Alfred Prufrock.
“Allora andiamo, tu ed io,
Quando la sera si stende contro il cielo
Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;
Andiamo, per certe strade semideserte,
Mormoranti ricoveri
Di notti senza riposo” (…)
Le stanze semideserte della casa nella quale Dario Argento si è creato un rifugio per provare a mettere in ordine gli appunti del suo libro sono un mormorante ricovero che in realtà non garantisce nessun riparo.
La distanza tra i due protagonisti è testimoniata da un’immagine emblematica del film, quella in cui il figlio insiste col padre sulla necessità di trovare un luogo di cura dove la madre possa essere adeguatamente assistita. Le mani si toccano ma i loro volti non sono racchiusi dalla stessa inquadratura: è come se fra loro si frapponesse uno specchio nero (simbolicamente lo spazio dello split screen) che impedisce ad entrambi di vedere la situazione per quella che è. Il netto rifiuto del padre, infatti, che ribadisce che quella è la loro casa e che non la abbondoneranno, avrà conseguenze dannose in primis per lui, data l’incontrollabilità della moglie.
Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi[3]
“Così, sposato ai miei guai e adagiato nella tomba, lascia che io muoia vivendo.”
(In Darkness, John Dowland)
La musica di John Dowland non è presente nel film, ma il testo sembra accompagnare la madre in ogni sequenza, con quel vagare nella casa in cerca di qualcosa di non definito, che la sua mente non riesce più a focalizzare. Coscienza di sé e perdita neurologica sono i due poli fra cui oscilla il personaggio di Françoise Lebrun, senza che sia chiara la distinzione tra le due dimensioni. Getta consapevolmente nel wc gli appunti così preziosi per la stesura del libro del marito? Vale lo stesso per tutte le medicine che butta anch’esse nell’acqua? Parafrasando il testo di Dowland, la madre è in cerca perenne di una dimora, di uno stare che dia pace: sì, ma dove?
Non riconoscendo il marito come tale - classico sintomo della malattia che la affligge - chiede al figlio accorso in aiuto chi sia quell’uomo che la segue ovunque per la casa; nelle scale del condominio si sente persa e cerca, invocandolo, il marito che non tornerà più, come le ricorda cinicamente il vicino stanco del disturbo notturno. Ed è proprio seguendo il percorso di una filiazione letteraria che troviamo la citazione dal XXVII canto dell’Inferno dantesco all’inizio del poema di Eliot:
“S’io credesse che mia risposta fosse
A persona che mai tornasse al mondo
Questa fiamma staria senza più scosse
Ma perciocchè giammai di questo fondo
Non tornò vivo alcun, s’i odo il vero,
senza tema d’infamia ti rispondo”
(The Lovesong of J. Alfred Prufrock, T. S. Eliot)
Presa, forse, da un raro momento di coscienza, non le resta allora che adagiarsi sul letto coprendosi il volto come con una sindone, in attesa del momento in cui l’oscurità sarà totale.
“Lascia che io dimori nell’oscurità (…) per tener lontana da me ogni luce allegra.”
(In Darkness, John Dowland)
https://www.youtube.com/watch?v=dBVIJnqtYfs&ab_channel=pelodelperro
La sindone, quale traccia di una realtà che in questo caso non è più possibile recepire, perché non resta alcun segno, nessun sedimento corporeo; tutto si fa evanescente proprio all’interno di un film, vale a dire il luogo per eccellenza dove risiedono le immagini fantasmatiche. Lo testimonia il funerale della donna, con quel momento in cui l’officiante manda su schermo alcune immagini della sua vita passata; la gioventù, il figlio, il marito…pare proprio che il tempo distrugga tutto. Ed è su questo punto, sulla sparizione dei corpi che Gaspar Noé si ricollega ad uno dei più celebri finali della storia del Cinema, vale a dire quello de L’eclisse di Michelangelo Antonioni (1962) con quelle immagini dei luoghi ora vuoti, che Alain Delon e Monica Vitti avevano solcato, con i corpi che escono dall’inquadratura (ci torneremo, nda), per lasciare spazio ad una sensazione di vuoto.
Frame dal finale de “L’Eclisse” (1962)
In Vortex, dopo che per due ore il regista ci ha tenuti al chiuso, sia nei riquadri dello split screen che dentro alla casa, riattraversando gli stessi luoghi rimasti vuoti, privati della presenza dei due protagonisti, vediamo lo studio di Dario Argento pieno di libri, appunti, riviste, vhs e persino una macchina da scrivere, il bagno con il tipico seggiolino per gli anziani e il wc dove sono state gettate le pillole e i fogli, la camera con le doghe del letto separate: tutti segni e simboli di un mondo che non c’è più.
L’imbalsamazione della realtà è oramai avvenuta e infatti il regista prende commiato da noi, dai nostri occhi, mostrandoci le due finestre da cui all’inizio marito e moglie si sorridevano; quindi seguono immagini della casa senza più mobili e poi con un movimento ascendente dal dentro si passa al fuori - quasi che la pellicola si stia riavvolgendo per tornare alle prime riprese (quelle aree sul quartiere e sulla casa per poi entrarci) - su nel cielo con la telecamera che ruota come un vortice per smaterializzare tutto nel bianco.
La dimensione aerea richiama un altro capolavoro di Gaspar Noé, Enter the Void, interamente girato dal punto di vista di un’anima che si stacca dal proprio corpo ucciso e che osserva lo scorrere della vita. The Void, entrare nel vuoto: torniamo all’esergo iniziale con la paura che il protagonista del libro di Philip Roth aveva di scomparire nel nulla.
“Tutti i sogni sono corti, i sogni nei sogni lo sono ancora di più” afferma il figlio durante il funerale della madre chiedendo perdono per essersi trovato nella posizione di dover decidere per i genitori anche a scapito della loro libertà. “Spero che nel vostro sonno troviate la serenità”: su questa speranza si inserisce il nipotino a chiedere se ora i nonni abbiano una nuova casa. Le immagini proiettate durante il commiato mostrano l’unico momento di unità che fino ad ora lo split screen aveva impedito e che infatti non viene mostrato nel film: un abbraccio tra marito e moglie, in una scena non vista, in un’altra dimensione.
"Ho percepito l'oscurità e sotto ho percepito che ce n'era un'altra. E lì ho sentito che mia figlia era presente e anche mio padre era lì e che, insieme a loro e al loro amore, sarei potuto svanire in un abbraccio".
(Rust Cohle - True Detective)[4]
Ed è con questa frase che ci congediamo, uscendo anch’io di scena come facevano i due protagonisti di True Detective al termine della prima stagione, con quel memorabile procedere verso un lato dell’inquadratura per poi dissolversi e lasciare spazio al cielo stellato. Lo stesso cielo a cui volgevano lo sguardo all’inizio del film Dario Argento e Françoise Lebrun, prima che ci venisse mostrata la loro odissea, per poi ritrovarli uniti nell’ultima immagine in un solo riquadro dello split screen, non più divisi ma insieme nello stesso lato dell’inquadratura con le foto del loro omega.
Nessuna entrata nel vuoto allora, ma la speranza di un passaggio in un altrove, un’isola nell’universo dove abbracciarsi presi da un vortice.
“La luna stanotte ha vegliato la mia amica, nei sogni io la vedo abbagliante e nuda, la sua anima che danza, oltre le nuvole e mi sorride. Creda chi può credere, io ho bisogno della speranza o sono perduta.”
(Françoise Hardy, Mon amie la rose)
Editing di Ornella Genua
[1] Volendo potremmo trovare un parallelismo con Dario Argento che in questo film ci viene spesso mostrato al telefono con la sua amante, alla quale dichiara ancora tutto il suo amore dopo tanti anni.
[2] Irreversible (2002).
[3] Titolo della biografia di D.T. Max a cinque anni dalla morte di David Foster Wallace.
[4] Sempre riferendosi al Void che tanto interessa a Noé mi è d’obbligo ricordare che l’ultimo episodio di True Detective s’intitola: Form and Void.