Ci sono i sintetizzatori.
E canzoni sui sintetizzatori.
Ecco, ve l’avevo detto che era sorprendente.
Sì, ci sono anche chitarre, orchestre e il chamber pop più o meno sottotraccia c’è.
Ma ci sono palesemente il synth-pop e una certa new wave, ripescati dalla giovinezza dell’autore, quando il futuro era in parte quello che stiamo vivendo ora e in parte inimmaginabile.
Telefoni cordless, internet, laptop, social, app per fare senza muoverci da dove siamo seduti.
Elettronica.
Nel quotidiano e nella musica.
L’insieme delle attese, del ricordo e di quello che si è, volente o nolente verificato, elaborato dall’ironia e dall’intelligenza di Hannon sono diventati Office Politics.
Undicesimo album di inediti e undici canzoni sulla “politica dell’ufficio”, quindi sul processo e il comportamento nelle interazioni umane che coinvolgono il potere e l’autorità, ma anche uno strumento per valutare la capacità operativa e bilanciare le diverse opinioni delle parti interessate. Un immaginario che inevitabilmente ha connotazioni anni ’80 ma che parla di relazioni e interazioni contemporanee e anche, paradossalmente, future.
Il meraviglioso ed elaborato impianto melodico che appartiene alla penna di Hannon e caratterizza tutti i suoi lavori è qui affiancato da atmosfere digitali e sintetiche che rimandano ad un certo Bowie, ai primi Talk Talk, a certe intuizioni kraftwerkiane, a certe produzioni di Trevor Horn. Il risultato di tutto ciò, almeno in alcuni momenti, non è volutamente per nulla comodo e rassicurante.
Spesso le liriche sono sfacciate ma hanno intorno arrangiamenti elaborati e sofisticati, un binomio che rende il disco un equilibrio tra eccessi.
Ci sono il rimpianto e la nostalgia di tempi ormai lontani in cui la tecnologia affascinava ma non era così invadente, così indissolubilmente legata alla nostra vita.
Monitor a tubi catodici e tastiere del computer che diventano synth, sogni e racconti in un immaginario anacronistico ma pieno di bellezza.
Il disco ha una struttura di canzone / electro / canzone / electro che aiuta ad assimilare meglio elementi di rottura che presentati in maniera più diretta sarebbero stati più complicati. Così, già dalla tracklist, è evidente come il ritmo abbia un ruolo fondamentale.
Lo capiamo subito quando sembra di sentire Paul Simon nell’iniziale "Queuejumper", seguita perfettamente da “Office Politics”. In queste due canzoni in successione abbiamo chiaro quel lamento del lavoratore che si snoderà per l’intero album.
Cosa passa per la testa del prepotente collega che salta davanti alla linea del caffè o al fornello all’entrata?
“Salto la fila perché sono migliore di te”, canta Hannon nel suo peculiare accento irlandese.
Se non lo odi già, lo farai, canticchiando questa melodia infettiva ogni volta che lo vedrai passare.
Allo stesso modo, la verbosa e sintetica – con cori soul – “Office Politics” ci accompagna attraverso ogni singolo personaggio che popola l’ufficio, da chi si sbronza alla festa di Natale al manager spietato che indossa i suoi “calzini esilaranti”.
Anche se sono tanti i cliché (compreso il “giro sulla fotocopiatrice”) è impossibile non riconoscere, se non totalmente almeno in parte, persone reali con cui hai interagito almeno in un’occasione.
E forse ti ci puoi persino ritrovare.
Sorpreso?
“Infernal Machines” avanza come “Atlas” dei primi Battles ma in DOS ed è impossibile non farsi trascinare e lasciarsi andare quando arriva tra echi e pad quell’organetto a sdoganare tutto e tutti. Poi entra la dolcezza chamber pop di “Norma And Norma” che accoglie come solo certe braccia possono fare, con una familiarità che non conosce misura.
Il manager che forse è l’amante o entrambe le cose, in una commistione sempre più radicata tra ufficio e vita al di fuori di esso, licenzia/lascia il nostro narratore nella morbida ballata pop con inserti funky disco “Absolutely Obsolete”.
“You’ll Never Work In This Town Again” riesce a coniugare fischi e fisarmonica western, percussioni e tastiere da crociera con ritmiche sexy ed essere assolutamente irresistibile. Alla fine del brano viene da chiedersi perché nessuno abbia ancora chiesto a Neil Hannon di comporre una canzone per un film di James Bond.
“The Synthesiser Service Centre Super Summer Sale” è il brano più estremo del disco, la canzone di synth fatta di synth che ho nominato all’inizio di questa recensione. Un viaggio lisergico e, appunto, sintetico piazzato proprio – e non casualmente – a metà del disco.
Il riff funky disco di “The Life And Soul Of The Party” spinge sui synth, le orchestrazioni lussureggianti e i fiati, mentre una collega ubriaca danza nell’indifferenza generale.
Tra atmosfere notturne e orientali, “A Feather In Your Cap” intriga per la strana sensazione di un brano che cresce in un’interpretazione in stile Duca Bianco per aprirsi in un ritornello di Prince.
“I’m A Stranger Here” è un brano, assieme a “Opportuniy Knocks”, che esprime al massimo un’attitudine cinematografica con tratti musical tra atmosfere retrò e noir.
Torna forte la sensazione di Bowie nel sarcastico approccio della occulta “Dark Days Are Here Again”, così densa e stratificata.
La sorpresa è grande nel pensare a Steve Reich, Philip Glass e Sufjan Stevens in un caleidoscopio ritmico e armonico da cui esce “Philip And Steve Removal Company”.
I due brani che chiudono ci riportano a casa, dal Neil Hannon che conoscevamo bene, tra melodie e arrangiamenti perfetti. “After The Lord Major Show” e “When The Day Is Done” hanno quell’epicità che non ha bisogno di altro, che non rincorre, che non aspetta.
Insomma, passata la sorpresa, che, detto tra noi, è una gran bella cosa, che rimane?
Un album da scoprire ascolto dopo ascolto.
In cui oltre ad un artista che si è messo in gioco, ci siamo noi.
Quelli di ieri e di oggi.
Che ci piaccia o no.
Neil Hannon ha fatto di nuovo un grande disco e anche stavolta, mentre ce lo assaporiamo, ci chiediamo già come sarà il prossimo.