DUE INCIPIT
1929
Un uomo affila un rasoio, fissa la lama e poi esce in terrazza a osservare qualcosa nel cielo, un punto, forse. Stacco veloce della macchina da presa sulla luna, la cui visione pare condurlo a uno stato di trance, mentre alcune nubi all’orizzonte sembrano avvicinarsi, come per tagliarla in due. Altro stacco: il volto di una donna cui sono divaricate le palpebre, mentre la lama seziona in due il bulbo oculare.
1999
Una donna rientra nell’intimità domestica e con pochi ma essenziali movimenti fa scivolare l’abito da sera a terra; è nuda, ha un corpo avvenente, ma come in un battito di ciglia, un frame nero chiude impietosamente la visione, impedendone il godimento e frustrandone il desiderio.
INTRO
Paura e desiderio sono due termini che spesso sono accostati per analizzare il timore di guardare ciò che ci attrae e i meccanismi psichici che ne regolano l’azione. “Fear and Desire” non a caso è uno dei primi film di Stanley Kubrick, immenso regista che ci ha lasciati sul finire del secolo del Cinema. Suo è l’inizio del 1999 con “Eyes Wide Shut”, mentre quello di settant’anni prima è a firma Luis Buñuel con “Un chien andalou”.
I due film si tengono per mano nel segno della liaison tra sogno e psiche, anzi del “Doppio sogno” se vogliamo riferirci all’opera di Arthur Schnitzler da cui prende spunto Kubrick. Entrambi, in aggiunta, ci parlano del desiderio tra un uomo e una donna; nel 1929 Sigmund Freud scrive “Il disagio della civiltà”, opera con cui tratteggia le pulsioni legate alla libertà istintiva dell’uomo, in contrasto con i dettami della società che tende a sopprimere le stesse, in favore del vivere comune.
Il protagonista di “Un chien andalou” è in questo senso emblematico, mosso da un principio di piacere che lo porta addirittura ad uccidere sè stesso, in una sorprendente visione del suo doppio, tema che crea un ponte di collegamento con Stanley Kubrick. Settant’anni dopo, infatti, abbiamo il protagonista di “Eyes Wide Shut” a braccetto con due donne che lo tentano flirtando e che gli chiedono se desidera andare a vedere la fine dell’arcobaleno, mentre la moglie danza con un altro uomo. [1]
In questo film Tom Cruise, altro non è che una grande metafora di un atto mancato; vorrebbe lasciarsi andare a un desiderio sfrenato, ma c’è sempre qualcosa che lo ostacola (la stessa cosa succedeva nel film di Buñuel) o che lo salva da situazioni pericolose. Anzi, meglio dire che si tratta sempre di una donna che lo toglie dai pericoli: la moglie che con una telefonata gli impedisce, indirettamente, di contrarre l’AIDS, mentre si trova nell’appartamento di una prostituta. E ancora: il sacrificio di un’altra prostituta lo salverà dalla punizione, dopo essere stato “smascherato” nella villa in cui sta avvenendo l’orgia, cui ovviamente non riesce a partecipare, vittima del suo voyeurismo e intento come è a capire se si trovi in un sogno o nella realtà.
Atti mancati e iconografia del doppio, già simbolizzata nella “Suite per Orchestra jazz n. 2 (The Second Waltz)” di Dimitri Shostakovich che Kubrick utilizza come colonna sonora dell’incipit; doppio sfasamento nell’accostamento tra jazz e valzer, due mondi musicali ben lontani e distinti. E proprio la musica ci consente di tornare a Buñuel il quale, dopo la prima versione muta del capolavoro scritto con Salvador Dalì, ne realizzò una seconda, inserendo due tanghi argentini (la musica della passione, appunto) e musiche tratte dal “Tristano e Isotta” di Richard Wagner, uno dei più struggenti drammi lirici, pieno zeppo di inganni e travestimenti. Questi riferimenti alla maschera, al travestirsi, ci conducono lungo la linea di un immaginario nastro di Moebius[2], e ci traghettano al paradosso degli “occhi spalancatamente chiusi”; film, infatti, che abbonda di maschere (in senso doppio, ça va sans dire, con tutto il carico di significati artistici e psicologici), di costumi e di una parola d’ordine per entrare nel “sogno”, per essere ammessi alla villa, per entrare in scena: Fidelio.
“Fidelio” è anche una messa in scena in due atti, su musiche composte da Ludwig Van Beethoven[3], dove abbiamo una donna che si traveste da uomo per salvare il marito. Marito che alla fine del film di Kubrick, si ritrova, un’altra volta smascherato, in cucina a confessare tutta la sua (in)azione davanti alla moglie, nella tipica posa dei bambini che si vergognano. “Io confesso”, tanto per ricordare Alfred Hitchcock, uno che di voyeurismo se ne intendeva, ma soprattutto “Io ti salverò” con la celebre sequenza del sogno realizzata da…Salvador Dalì!
Purtroppo, fu tagliata la sequenza onirica in cui Ingrid Bergman si trasformava nella statua della dea Diana. Le fonti dicono che nel progetto originario la scena del sogno doveva comprendere anche una sequenza ambientata in una sala da ballo con dei pianoforti sospesi nell’aria. Una scena di ballo apre pure il film di Kubrick e sarà davanti ad un pianoforte che Tom Cruise apprenderà la parola d’ordine per entrare nella villa. Non si esce dal loop, siamo costretti a danzare.
Dance otherwise we are dead.
Danzare nella fine, come in quella “Splendida festa di morte” che è il titolo originario del racconto da cui Kubrick trasse “Shining”, film che termina in una sorta di eterno ritorno, dopo che Jack Nicholson è morto assiderato nel labirinto e mentre una telecamera entra nell’hotel a riprendere una foto appesa ad una parete che vede una folla di persone vestite in abito da sera per il gran ballo del 4 luglio 1921 con Nicholson in primo piano. E come si chiama l’hotel?
Overlook Hotel
Ancora gli occhi, il gettare uno sguardo. Guardare da sopra, ad essere letterali, come Jack Torrance che osserva il plastico del labirinto mentre la mdp inganna il nostro occhio facendoci credere che sia una soggettiva dell’attore, mentre in realtà si tratta di una ripresa dall’alto del labirinto all’aperto. La figura del labirinto è perfetta per questo discorso sul vedere che in ogni sua parte apre dei percorsi che ripiegano su sé stessi, come nel nastro di Moebius. Labirinto che in “Shining” è un giardino [4].
“Il giardino dei sentieri che si biforcano” del bellissimo racconto di Jorge Louis Borges. Non è questa la sede per tirare in ballo David Lynch ma è doveroso accennare alla potente trasposizione del racconto dello scrittore argentino realizzata da Lynch col suo “Strade Perdute”, altro film psicologico su un’identità che diventa un’altra, sulle pulsioni represse di un uomo che desidera un’altra donna e uccide la moglie, salvo poi rifugiarsi in un delirio psicotico senza uscita.
Ex-(plic)it
Inevitabilmente, quando si parla di Cinema, ma non solo, si è portati a ripetere i verbi: guardare, vedere, osservare. Nel cane andaluso le visioni nascono dall’inconscio dell’uomo, mentre è la donna che guarda, che attende, salvo poi respingerlo quando lui la tocca; analogamente, quando Tom Cruise si avvicina alla moglie baciandola sul collo, lei nel frattempo guarda da un'altra parte o, meglio, calamita la nostra attenzione verso un altrove, un’alterità che vanifichi il voyeurismo della scena.
Così come l’occhio della donna di “Un chien andalou” veniva spalancato e quelli di Alex in “Arancia Meccanica” venivano costretti a guardare per essere educati, possiamo prendere queste due immagini note della Storia del Cinema e questa linea che ho tracciato fino ad ora, come preambolo di quella che forse è una delle scene più belle e simboliche allo stesso tempo sull’argomento.
Mi riferisco allo spezzone di quel film martoriato che è il “Don Quixote” di Orson Welles, a quella magnifica scena dove Sancho Panza/Orson Welles entra in un teatro gremito di bambini dove si sta proiettando un film. Seduto in platea possiamo vedere quel visionario di Don Chisciotte, che guarda le immagini con occhi sempre più rapiti; la visione lo sconquassa a tal punto che con un moto irrefrenabile scatta e si dirige verso il palco, brandendo la spada e tagliando il telo in più parti, creando dei buchi nella visione, ma senza per questo impedire lo scorrere delle immagini. Ricordo un montaggio curato da enrico ghezzi[5] con l’aggiunta di una versione di “The End” dei Doors, cantata da Nico, accostamento perfetto con la voce dolente della cantante dei Velvet Underground.
Le immagini continuano, nonostante tutto, nonostante la vita, come succede in “Inglourious Basterds” di Quentin Tarantino, dove nella sala del cinema, che brucia con i nazisti intrappolati, il volto della protagonista che irride i gerarchi criminali viene proiettato mentre lei giace morta nella stanza accanto. Magia del Cinema, magia dell’inganno. A noi resta solo lo spettro della visione. Un po’ come gli amanti del dipinto di René Magritte con il capo avvolto da un panno che nasconde i loro volti e che ammanta di mistero i nostri occhi, che pretendono di vedere.
Arrivati fin qui potremmo tornare, allora, all’incipit di Buñuel (l’essenza del nastro di Moebius - da cui il titolo dell’articolo - è in buona sostanza questa, un eterno ritorno senza via d’uscita) a quell’idea di Cinema che è una ferita da cui sgorga il mondo come un blob o uno squarcio da cui affacciarsi, per sbirciare quelle realtà che non riusciamo a (o non vogliamo) vedere. Perché siamo incatenati con collo e testa bloccati come quegli uomini nella caverna del mito platonico che vedono solo le ombre. Anche per noi vale il monito del famoso mito tratto dai dialoghi platonici: ammesso che uno di questi uomini si liberasse dalle catene e, dopo aver visto la realtà delle cose tornasse indietro, con gli occhi irrimediabilmente danneggiati dalla luce del sole, per liberare i compagni: qualcuno gli crederebbe?
Buffo come l'aspetto reale del mondo che si dice vero, sembri vero solo quando lo si veda sullo schermo (Stanley Kubrick).
The end.
[1] Cfr. le due gemelle che invitavano Danny a giocare in “Shining”, immagine con cui Stanley Kubrick citava la fotografa Diane Arbus.
[2] Immagine spesso utilizzata dalla critica per simboleggiare l’essenza del Cinema. Il nastro di Moebius è stato anche accostato da alcuni critici, come enrico ghezzi, alla struttura di alcuni film del regista statunitense David Lynch; i protagonisti di “Mulholland Drive” e “Lost Highways”, in particolare, si trovano ad un certo momento del film a rivivere scene già vissute, ma con i ruoli interscambiati, proprio come se si muovessero sull'unica faccia del nastro (Da Wikipedia).
[3] Cfr. La cura Ludovico Van di “Arancia Meccanica”
[4] Peccato che Kubrick non abbia mantenuto l’idea di King per cui il giardino/labirinto assume sembianze animalesche.
[5] Scritto minuscolo, come vuole lui.