“Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo
la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo
pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento
sempre fuori dal motore, vivere a rallentatore”
Lo cantava cinquant’anni fa Enzo Del Re, incredibile figura mitologica, metà cantautore, metà sedia da percussione, passatemi il termine. Ripeto: cinquant’anni fa.
“Lavorare con lentezza” è, forse, uno dei più bei comandamenti laici che gli uomini si possano scambiare. Scappa a gambe levate dal sensazionalismo sfrenato, dalla pornografia delle grandi imprese, dai primati spastici di presunti (e ovviamente iper-perfomanti) modelli da imitare, di cui siamo inondati ogni giorno.
Ecco, nell’orgia di prestazionismo in cui siamo finiti, ci sono alcune parole che sono completamente scomparse, una di queste è, ovviamente, la lentezza, sostituita dall’efficienza, parola (e, più che altro, modo di stare al mondo, almeno secondo qualcuno) che è diventata l’unico, incrollabile, metro di giudizio.
Anche in musica: non conta la bellezza vera, pura, di quello che fai, contano gli stream, gli ascolti, le visualizzazioni. D’altro canto, viviamo nell’epoca in cui Daniel Ek, il ceo della Banda Bassotti Inc, può permettersi di dire che gli artisti non possono più aspettare tre-quattro anni per pubblicare un album e che, piuttosto, dovrebbero essere delle macchine da singolo, per fare numeri, ascolti e visualizzazioni. La musica liquida, miglior espressione del qui ed ora, del tutto e subito, dell’usa e getta, della musica che deve fare de- pensare, che rimane come sottofondo.
Ovviamente sono scomparse dal vocabolario della narrazione quotidiana anche parole come “inutile” o “piccolo”. Nulla può essere inutile, tutto deve avere un fine ben preciso, e, parimenti, nulla può essere piccolo, tutto deve avere uno sguardo globale. E pazienza se tutto è piatto ed uniformato: l’importante non è come esserci, è esserci e basta.
Non è la prima volta che rivendico il mio diritto all’inutilità fra queste righe, adesso lo faccio mettendoci accanto la lentezza. Inutilità e lentezza, una specie di esercizio di eversione e di Resistenza, proprio come antidoto a tempi furibondi.
Tanto eversivo quanto resistente è Nuovospaziotempo, il nuovo album di Emma Nolde, che, oltre a diventare sempre più fenomenale nell’inventare parole nuove, di questo rivendicare la lentezza (che, in realtà, lentezza non è, è, più che altro, il giusto tempo per ogni cosa) si fa voce, anima, corpo e muscoli, quasi a creare uno di quei cortocircuiti che tanto ci piacciono fra la fulminante vitalità degli arrangiamenti e delle dinamiche ed il rilascio lento dei testi.
Prodotto spalla a spalla con Andrea Pachetti (che, insieme alla stessa Emma, a Marco “Pizza” Martinelli, Andrea Beninati e Francesco Panconesi, più le guest di Giulio Fagiolini e Stefano Rossi) Nuovospaziotempo è il terzo lavoro per la cantautrice toscana, e, nel suo essere squisitamente inequivocabile, è anche il più “ruvido”, quello che viaggia sulla tensione artistica, letteraria e compositiva meglio bilanciata.
Lavoro aperto da “Intro” e dal suo turbine letterario denso di immagini che passano come flash, “Gite, mare, feste, gambe/ lenzuola d’estate, luci a dicembre/ curve in montagna, piatti di carta/ non stiamo male/ noi gente normale”, perfettamente scandito da asfissie ritmiche, a loro volta addolcite dalle incursioni del violoncello e dagli arpeggi della chitarra, in un impasto sonoro che accompagna dritti a una “Sconosciuti” elettrizzata da un basso ad alto voltaggio, su cui si arrampicano gli ostinati del violoncello e una chitarra inzuppata nel delay, ad accogliere un “Dove saremo/ Chi avremo accanto/ Ci sentiremo mai felici più di adesso?/ Faremo come hai promesso?/ O un giorno saremo soltanto/ Sconosciuti/ Che si conoscono bene/ Sconosciuti/ Che sanno le loro paure / Illusi/ Che non potesse finire/ E poi soli” da brividi.
“Pianopiano” ci trascina a forza dentro un vortice ritmico scarnificato dal ruggire del basso e affondato in lagune di synth. E, giusto per tornare a quanto detto all’inizio, “Ho capito che là, là/ Nella città dove c’è tutto manca spesso un’idea/ E qua, qua dove sto io c’è solo cielo/ Ma almeno abbiamo fantasia”, accompagnato a stretto giro da “C’è chi vuole salire arrivare alle stelle/ E c’è chi come noi preferisce guardarle/ C’è chi vuole salire arrivare alle stelle/ E c’è chi come noi sta per terra a guardarle”.
A seguire, “Sirene” dilata lo spaziotempo del disco, cucendosi addosso un vestito di arpeggi umidi, squarciato dalle aperture commoventi del violoncello e da un potentissimo crescendo. Incredibile, anche qua, la parte letteraria, potentissima fin da subito col suo “Tu dai e non sai cosa vuoi avere/ Tu fai e non sai che chi fa può sbagliare/ Tu è una vita che sbagli/ Che rompi i bicchieri e lasci decidere gli altri/ Tu è una vita che sbagli/ Che per non deludere gli altri/ Preferisci deludere te”.
“Tuttoscorre” torna a timbri più serrati, col solito basso caleidoscopico a tirare le fila, un pianoforte abissale a far sprofondare ed un violoncello a riportare in superficie e srotolarsi sulle immagini vitalmente nitide raccontate nei versi, “Ripartiamo proprio come un aereo che trema e poi vola/ Tu mi hai dato qualcosa di cui avere paura/ Ti vorrei convincere che questa incertezza che senti è normale/ Ti regalo la mia età e un cannocchiale per vedere dove possiamo arrivare”.
“Punto di vista”, semplicemente un gioiellino impreziosito dalla tenerezza di Niccolò Fabi, atterra su nuvole di synth eterei, da cui escono lo strumming acustico delle chitarre e una coda strumentale di violoncello che arriva come un cazzotto. Era ovvio che da una collaborazione del genere non potesse non uscire roba che ti buca il petto, e allora “Vedi io vivo come su un binario/ E lo so che sembra una rinuncia/ Ma è solo un modo per restare in piedi e non perdermi nel vuoto”, con un finale ("Non dobbiamo più più nasconderci/ smontiamoci e facciamoci a pezzi/ scambiamoci gli occhi e scambiamoci i sensi/ scambiamoci ogni cosa che ci faccia stupire/ cambiamo angolazioni e modi di percepire/ qualsiasi cosa che ci faccia imparare/ un’altra visione del mondo/ del tempo e dell’amore”) che non è affatto da meno.
A ri-scompigliare i capelli ci pensa una “Sempre la stessa storia” scorticata dai proverbiali accordi secchi e tesi, da una batteria che mangia il cervello e da un basso al fulmicotone, scavato da versi come “Ora se non esco di casa/ Poi non mi addormento/ Se non mi addormento poi guardo qualcosa/ Se guardo qualcosa di bello che senso ha se non te lo scrivo”.
“Punto di domanda”, scritta e cantata con Nayt e Mecna, si attorciglia intorno al pattern sabbioso della batteria, col pianoforte a reggere la parte melodica, il basso ad agitarsi sottopelle ed un violoncello effettato ad affrescare tensioni perfettamente raccontate anche nel testo, “Dicono/ sei quello che ami/ sei quello che scegli/ sei quello che perdi/ Dicono/ sei quello che immagini/ quello che vedi/ i vestiti che indossi/ Dicono/ sei il tuo corpo i tuoi amici/ sei il posto in cui vivi/ sei quello che vedono gli altri/ sei quello che eri e quello che devi ancora diventare”.
“Universo parallelo” scorre lungo l’arpeggiare legnoso della chitarra, ingrossato dagli interventi del piano e dalle incursioni ariose del violoncello, che disegnano un crescendo potentissimo. Altrettanto intensi sono i versi, "In un universo parallelo/ Ti difendevo io e per la prima volta/ Abbassavi la guardia andavamo in macchina guidavo io/ Per distrarti un po’/ per distrarci un po’/ Che in mezzo agli esami a mille equazioni forse avresti voluto solo/ Solo suonare il piano/ Solo scattare molte foto/ In questo tempo mai esistito/ Ci scambiavamo di ruolo/ Ed ero io a aiutare te”.
“Mai fermi” lambisce margini spoken, facendosi attraversare da una sezione ritmica muscolare e notturna e dalle nevrosi elettriche della chitarra, con violoncello e piano ad ammorbidire il finale. Versante letterario, anche in questo caso, evocativo nel suo sparare immagini a raffica “Alla fine ci siamo persi a forza di coprirci gli occhi/ ormai possiamo andare solo più avanti avanti avanti/ Qui a nessuno importa di dove finiremo poi si vedrà/ troppi se troppi ma ciò che è sicuro è che l'uomo vuole arrivare alle stelle/ costruire chiese più alte, fare l'amore, fare un figlio e dare un senso a questa eterna giostra”.
Ultimo passaggio del disco è “2”, ed è una chiusura perfetta, con l’intimità detonante di un chitarre e voce e con la gentilezza resistente di versi come “E camminare non farà fatica se saremo in due/ Addormentarsi non sarà più dura se saremo in due/ E la noia ora è tempo/ E il buio non fa più paura ma ascoltarsi meglio”.
Insomma, stiamo parlando di un disco praticamente perfetto, attraversato da una fibrillazione costante, da una muscolarità nervosa e a fior di pelle, di cui i (pochi) momenti di “calma” sono bilanciamento perfetto, e per tensione letteraria e per la bravura commovente di Emma nel far tremare con un filo di voce. È un disco splendidamente notturno, autostradale, che si lascia esplorare dalle luci delle stazioni di servizio, da tutti quei posti liminali in cui la vita scorre in tutta la sua benedetta violenza.