Può darsi sia davvero il periodo peggiore per la musica italiana, come ipotizzato da qualcuno in questi giorni. Di sicuro c’è che dagli sconvolgimenti operati dalla pandemia non torneremo più indietro, non mi pare ci siano dubbi su questo. Invece che delineare scenari catastrofici tutti comunque ancora da verificare, però, potrebbe essere meglio concentrarsi su quello che abbiamo.
E quello che abbiamo, forse, potrebbe non essere poco: se il mercato è appiattito sulle logiche dei Social e dello Streaming, in una ricerca della visibilità e del successo facile che tende per forza di cose al carattere effimero e superficiale dell’esistenza dei singoli artisti, c’è tuttavia qualcuno che punta ancora sulla ricerca pura e scrive canzoni spinto da una reale urgenza.
Il punto di partenza, nel caso di Filippo Giglio e del suo progetto Ibisco è l’anonimato stantio della provincia, un non luogo dai contorni indistinti e dove è facile - e forse anche comodo - rimanere sperduti, specchio di una penuria esistenziale e di un disorientamento molto simili a quelli che i fratelli D’Innocenzo hanno rappresentato nei loro film (compreso l’ultimo, splendido, “America Latina”) e, consentitemi di dirlo, elemento non poco affascinante di un paese che troppo spesso siamo portati a ripudiare (anche per sacrosante ragioni, ci mancherebbe).
Nowhere Emilia, disco d’esordio che esce per V4V e che vanta già la prestigiosa licenza della Universal, gioca nel titolo sia con Nebraska di Springsteen che con Padania degli Afterhours, vale a dire la geografia come metafora di una sconfitta o di una mancanza difficile da definire e ancora più dura da colmare.
Partire da una reale urgenza, si diceva poco sopra. Ibisco non si è fatto contagiare dai cliché dell’It Pop, i cui esponenti parlano di sfighe e di disagi ma che in fondo in fondo sembrano pavoneggiarsi del loro essere “presi male”, come se fosse un vestito che si può indossare o togliere a seconda della temperatura. Ibisco parla di disagio vero, di vivere in un posto che ti ha succhiato l’anima e ti ha reso così simile ad esso che è difficile capire che può esistere un’alternativa. Ci sono strade dimesse e paesaggi deturpati ma non c’è neppure quell’autocompiacimento un po’ tronfio che aleggiava sui primi dischi di Vasco Brondi, quelli in cui era ancora Le Luci della Centrale Elettrica.
Filippo non ha tanta fretta di apparire, canta a voce piena ma non pare voler ritagliarsi un ruolo da protagonista. È conscio di appartenere ad una generazione (è nato nel 1995) che potrebbe aver già esaurito, se mai ne ha avuta, la spinta propulsiva, ma ha scelto di cantare questo mondo in bianco e nero perché ricavandone bellezza potrebbe in qualche misteriosa maniera salvare anche il suo destino.
E lo canta, state attenti bene, mettendo insieme mondi che fino a ieri sembravano non poter comunicare: la New Wave nebbiosa di Cure e Joy Division, il Synth Pop scuro dei Depeche Mode, declinati però con un piglio contemporaneo a metà tra Disco e Pop, una produzione solida e sufficientemente moderna, così che questo disco possa essere considerato figlio del presente, piuttosto che l’ennesimo sguardo nostalgico verso il passato.
Sarà che Filippo non ha ancora trent’anni, sarà che è stato consigliato bene in sede di confezione sonora, sarà semplicemente che ha una profondità di scrittura frutto di un talento raro; fatto sta che Nowhere Emilia potrebbe essere il primo esempio di quello che realmente servirebbe alla scena italiana per non morire lentamente, annoiata e avvitata su se stessa.
Le canzoni ci sono, dicevamo: c’è “Meduse”, che è una ballata tanto strana per fungere da opener, tanto straordinaria nel suo crescendo emotivo, un manifesto generazionale di malinconia e rassegnazione, semplicemente uno dei più bei pezzi in italiano degli ultimi anni. Poi c’è “Ragazzi”, che gioca molto di più sull’elettronica, sulla cassa dritta, sulle suggestioni da club e che strizza gli occhi a Cosmo in più di un’occasione. Anche “Pianure” un po’ è così ma ha un’intensità drammatica che impedisce di lasciarsi andare al suo ritmo, pur se coinvolgente.
D’altronde lo avevamo anticipato: è un disco scuro, in bianco e nero, l’assertività del suo linguaggio è comunque spesso velata di tristezza e le linee vocali, sempre splendide e vero punto di forza di ogni brano, hanno spesso il sapore di qualcosa che crolla. È così per “Bologna Nord”, lenta e quasi gotica, oppure per “Houtunno”, gran lavoro ritmico e brano forse più tipicamente Wave di tutto il lotto.
Ed anche laddove c’è l’anthem, laddove ci sarebbe la possibilità di cantare a squarciagola i ritornelli, proviamo un senso di pudore, nell’intuizione che forse queste canzoni ci vogliono comunicare altro, qualcosa che sarebbe meglio ascoltare in silenzio. Ne sono esempi l’incedere, pur incalzante, di “Chimiche” e di “Tintoria”, quest’ultima impreziosita dalla voce di Pasolini che discute di potere e omologazione, giusto per rincarare la dose su quel che si diceva in apertura. O anche “B”, un interessante featuring di Enula, canzone d’amore sullo stringersi forte nella nebbia nella certezza (vera rarità in questo disco) che una strada la si possa trovare.
E in chiusura, una ballata semi acustica come “Luci”, tanto fuori posto nel contesto quanto sorprendentemente delicata, come se dopo tanta sofferenza si potesse semplicemente lasciarsi andare alla dolcezza.
Cambierà le sorti del Pop italiano, questa opera prima di Ibisco? Non ci è dato di saperlo ma di sicuro Nowhere Emilia è non solo il modo migliore per iniziare questo 2022 ma anche un’indicazione chiara sulla strada che dobbiamo percorrere.