Il concerto milanese dei Notwist, il primo in cinque anni, era anch’esso stato annullato e riprogrammato (mi pare che in origine fosse previsto a gennaio) come la stragrande maggioranza degli eventi di questo periodo. Lo scorso anno comunque avevano già trovato il modo di passare da noi per tre date, due ad agosto, a Prato e in Friuli per il Sexto ‘Nplugged, l’ultima, alla quale ero presente e di cui ho scritto qui, a Bologna. C’era da presentare il nuovo Vertigo Days, che per una band come la loro, abituata a centellinare le uscite, rappresentava di per sé una notizia (il precedente, Close to the Glass, è del 2014, in mezzo c’era stata solo la rivisitazione dell’opera strumentale Messier Objects; questa sera ne viene proposta una porzione, col fratello di Markus, Micha, impegnato con un molto scenografico susafono).
La location prescelta, come l’ultima volta, sono i Magazzini Generali, funzionali dal punto di vista dell’affluenza (niente sold out ma comunque locale bello pieno), molto poco se il punto era garantire una fedele resa acustica, cosa che per il collettivo di Monaco è a dir poco imprescindibile.
Che cosa si può ancora dire di un concerto dei Notwist, che non sia stato detto? Chi non li avesse mai visti dal vivo dovrebbe colmare al più presto questa mancanza perché sul palco Markus Acher e compagni sono, senza niente affatto esagerare, tra i migliori al mondo. Oltretutto Vertigo Days si presenta come uno dei loro lavori più belli; cosa non scontata, perché se nella dimensione live sono insuperabili, al di fuori di Neon Golden, che è un capolavoro universalmente riconosciuto, le loro prove su disco sono sempre state piuttosto discontinue (a me personalmente “Close to the Glass” era piaciuto tantissimo ma ricordo che quando uscì divise parecchio il pubblico).
Il sestetto si è da poco rinforzato con la presenza di Theresa Loibl, multistrumentista alle prese però soprattutto col sassofono, che ha senza dubbio reso ancora più ricco e poliedrico il suono del gruppo, nonostante la pessima resa acustica della venue abbia non poco penalizzato il suo contributo. Niente sorprese in scaletta ed è questa forse l’unica nota dolente, con un concerto in tutto e per tutto identico a quello di settembre, solo un filo più lungo, visto che allora era caduta la pioggia subito prima dei bis.
C’è quasi tutto l’ultimo disco, a partire dalle iniziali “Into Love/Stars” ed “Exit Strategy to Myself”, proseguendo poi con il suo nucleo più sperimentale e avanguardistico, aperto dalla ballata minimale “Where You Find Me”, quasi interrotta a metà per lasciar posto alla secca elettronica di “Ship” e alla scura e vagamente apocalittica “Into the Ice Age”, stemperata poi dalle atmosfere soffuse di “Oh Sweet Fire”. Nel finale arriva anche “Loose Ends”, esempio perfetto di quella gestione dei crescendo e delle reiterazioni che è da sempre uno dei loro punti vincenti.
Il resto è il solito, anche se la bellezza degli episodi proposti fa sì che non importi quanto li abbiamo sentiti, trovano sempre la via per arrivare al cuore, e ogni volta è come la prima.
Come sempre i nostri sono spettacolari quando si lanciano a briglia sciolta mescolando le chitarre con i Synth, passando dalle cavalcate Indietroniche alle incursioni nella Dub, oppure mettendo in primo piano le percussioni, soprattutto gli xilofoni, a creare ritmi scarni ma straordinariamente ballabili. È il fascino di una ricerca musicale continua, del far nascere e fiorire un brano, fino a portarlo al punto di massima intensità e liberazione. Succede spesso ma l’apice assoluto avviene su “Into Another Tune”, che parte come la scarna ballata voce/Synth del disco per poi compiere un viaggio che la trasforma in qualche cosa di completamente diverso, molto più rumoroso e incentrato sulle chitarre; oppure nell’imprescindibile “Pilot”, che fa parte di quella “quota Neon Golden” che non può mai mancare nei loro concerti (in questo tour sono 5 brani su 10): arriva nei bis e dura 13 minuti abbondanti, con la parte centrale come sempre dedicata al Dance Floor e al remix in tempo reale del campione vocale di Markus sul ritornello.
Sono momenti come questi che, meglio di ogni altro, fanno capire la statura immensa di questa band. A chiudere il tutto arriva poi “Consequence”, scontata e dovuta (cinque anni fa però l’avevano lasciata fuori), unica vera hit del loro repertorio, tra i pezzi più belli del nuovo millennio senza troppo esagerare. C’è spazio anche per la strumentale “0-4”, breve traccia dominata dai Synth, suonata im efficace continuità, come fosse una prosecuzione tematica della precedente
Muovessero un po’ le setlist sarebbe perfetto, ma anche così c’è poco da dire, ancora una volta campioni assoluti, una band che non si capisce davvero perché non sia mai arrivata ad un livello di popolarità tipo Radiohead (per fare il primo nome che mi viene in mente); probabilmente c’entra il discorso che facevo prima sulla qualità complessiva del repertorio ma non credo comunque che a loro interessi. Conosciuti o meno, sono un gruppo indispensabile, speriamo vadano avanti ancora a lungo.