Che sarei maturata a fatica e che la mia prolifica fantasia mi avrebbe tenuta aggrappata all’età di 19 anni, lo capii la sera prima del primo scritto dell’esame di maturità. Venti anni or sono.
Capii che sarebbe stata la cronaca di una morte annunciata quando mi trovai sulla porta della cucina la Lela (l’articolo “la”, me lo si perdoni: sui monti in cui ho vissuto, infatti, senza articolo davanti al nome o sei un terrone, che potrebbe andar bene, o un milanese, e Dio non voglia).
La Lela era stata il mio peggior incubo durante asilo ed elementari, una bulla che da bulla diventò bullizzata il primo giorno in cui dai monti scendemmo a valle per frequentare la scuola media. Lì si azzerò tutto, non contava più un cazzo nessuno, nemmeno lei e la sua prepotenza. I restanti otto anni tra medie e superiori li passò, infatti, in un angolino cercando di rendersi invisibile e di evitare che la chiamassero cicciona. Io, invece, li passai sfilando sulla passerella dell’adolescenza, inciampando qua e là, ma senza mai più persecuzioni.
Dicevo della Lela sulla porta. Mi avvisava che la frana che tutti noi avevamo invocato per anni, aveva deciso di scendere a valle proprio la sera prima dell’esame di maturità, interrompendo di fatto la viabilità e costringendoci a una sveglia da pastore logudorese: le 4.00 del mattino.
Potete ben capire, o forse no, lo stato psicofisico in cui mi presentai al cospetto della commissione la mattina dopo. Sudata, reduce da un dribbling tra massi di Serizzo e Ghiandone, pale di elicotteri pronti a trarre in salvo noi meritevoli studenti e un panino con il prosciutto in mano, perché per me era quasi ora di pranzo ormai.
La magica notte prima degli esami, che tutti ricordano con gli occhi a cuore, la passai con la Lela a capire se l’elicottero sarebbe arrivato al campo sportivo o se facendo un’oretta di trekking e partecipando all’ultima edizione di Ironman, avremmo raggiunto i nostri rispettivi istituti.
Matteo, il mio compagno di classe preferito, mi aveva anche dedicato su Delta Radio proprio il pezzo di Venditti e lo ascoltai in compagnia della Lela, dividendo le emozioni in un magma di paura, di bestemmie e incredulità, per la puntualità con cui la sfiga si era abbattuta, anche questa volta, sulla nostra giovane vita di montagna.
Il giorno dopo scrissi un temone infinito sul romanzo del ‘900 italiano, sognando solo un letto, anche un pagliericcio, su cui dormire, e chiedendomi per tutto il tempo come cazzo sarei tornata a casa.
Il rombo della Vespa di mio padre mi fece capire che il viaggio di ritorno lo avrei fatto con lui, in Vespa, tra le macerie, percorrendo sentieri instabili che solo un narciso psicopatico potrebbe proporre alla sua figliola.
La sera prima del secondo scritto, che per me era matematica, la passai litigando con il vespista che aveva scoperto un fidanzatino a lui non particolarmente gradito e, come si conviene nelle migliori famiglie, minacciava di sigillarmi in camera, non farmi arrivare a scuola e far sì che mi bocciassero “così impari”.
La mattina dopo, sveglia alle 4.00 ed ingresso al liceo con il solito panino e due coglioni gonfi come zampogne alla festa per il patrono del paese. Quattro ore dopo, consegnavo l’ultimo scritto di matematica della mia vita completamente in bianco, salvo uno studio di funzione sbagliato. Sia chiaro, lo consegnavo in bianco perché io so far di conto stentatamente, ma l’unico liceo raggiungibile dalla valle di casa GG era lo scientifico, e mi toccò, quindi, improvvisare per 5 anni, arte, quella dell’improvvisazione, che poi al lavoro mi avrebbe enormemente ricompensata.
Da parecchio tempo fingo di sapere che lavoro faccio e mi riesce piuttosto bene.
Una tal Maff (e spero che tu lo legga sordida bastarda), colta da una crisi di panico durante la prova generale antecedente agli esami, aveva promesso a me e al buon Matteo, in cambio di alcuni esercizi ottenuti a suon di sigarette, anni di versioni di latino e l’aiuto nel giorno più importante. Ci aveva chiesto di poter lavorare indisturbata almeno le prime due ore, che poi a noi, bestiacce condannate al girone dell’inferno dei matematici, ci avrebbe pensato lei.
Così io e il buon Matteo cominciammo la mattinata scambiandoci merendine, sogni e un paio di arance vecchie. Due ore passarono, Maff cominciò a chiedere fogli timbrati su fogli. Al quarto foglio di protocollo scritto, cominciammo ad intuire che se dalla prima liceo la odiavamo con tutto il cuore, un motivo c’era. Non era tanto il fatto che facesse la doccia solo la domenica ed il sabato mattina si stava tutti in bidonville, no, era che questo buco di culo di paramecio, al posto del cuore, non aveva bidoni dell’immondizia (), no, lei aveva merda, anzi la merda.
Maff non ci passò nulla, nemmeno un fazzoletto con cui asciugarci gli occhi. In compenso la aspettammo in fondo alla scalinata del liceo per buttarle contro tutta la nostra violenza repressa, al grido di: puzzi!
Finì così. Con un’amara verità taciuta per anni e la convinzione di aver fatto centro. Di averle fatto capire che lei era il male e noi il bene e che la vita le avrebbe presentato il conto o consigliato un deodorante.
L’orale fu Waterloo. Matteo fece scena muta e il membro interno dovette vendere l’anima per evitargli una bocciatura. Io, con il solo obiettivo di fare i bagagli e fuggire da quel posto infame, litigai con il professore di Italiano, un dandy con la passione per D’Annunzio e una laurea comprata a Smallville. Pugni sul tavolo, il membro interno che mi stritola una mano, mia sorella che spalanca gli occhi e tiene in mano un sacchetto pieno di bigné. Matteo che piange, la mia professoressa di francese che si finge francese e io che scelgo il dandy per vomitare tutta la rabbia che per 19 anni avevo tenuto lì, tra una Lela, una frana, una Maff e un vespista padre. E il destino me lo aveva servito sul piatto d’argento in uno di quei giorni che tutti si ricordano e che per me ha il suono del grido di un William Wallace di montagna: libertàààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààààà!