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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
17/02/2025
Live Report
Nothing But Thieves, 15/02/2025, Palazzo dello Sport, Roma
I Nothing But Thieves arrivano al Palazzo dello Sport di Roma nello stesso sabato sera della finale di Sanremo. Il racconto di cosa è successo a chi ha scelto il parterre al divano, in una serata di danze tra mille luci colorate.

Sono le 20.30 del 15 febbraio anno di grazia 2025 e Sanremo sta per cominciare. No, voglio dire, non una serata qualsiasi, ma proprio l’ultima. Che ci faccio qui? Devo aver pasticciato con le agende. A casa il divano è vuoto e il mio posto è gelato. Non posso nemmeno accampare la scusa che piove e fa freddo. Non piove e la temperatura è giusta, appena un po’ freschina.

Finita la considerazione meteo cerco l’ingresso giusto e mi accorgo che non c’è tanta fila. Capirò poi perché.

Do un’occhiata alla fauna e concludo piuttosto in fretta che la maggioranza sono giovani, anche se non manca qualcuno più in età. Poi ci sono i padri che accompagnano figli minori, ma quella è un’altra faccenda.

Scambio due chiacchiere con una ragazza

“Cosa ti aspetti dal concerto?”

“Dai, una bella serata!”

“Ah: ok, buona serata allora”

Anche il senso di questa conversazione mi sarà chiaro poi.

Mentre faccio il giro dell’anello che conduce al parterre mi dico che la mia aspettativa principale è come minimo  che la cronica deficienza del Palasport in quanto ad acustica perlomeno stasera mi sia risparmiata. E questa è la terza cosa che scoprirò presto.

 

Prima del concerto, come è giusto, mi sono ripassato la produzione dei Nothing But Thieves per avere una percezione più fresca di quanto vado ad ascoltare. Mi erano piaciuti su disco, mai visti live. Giusto una considerazione: io tutta questa analogia che molti vedono con i Muse personalmente non la ritrovo, ma in generale non sono d’accordo con un sacco di cose, per cui penso sia un problema mio.

Appena entro nello stadio capisco il perché della poca fila: il parterre è quasi pieno e gli anelli lo sono praticamente del tutto. Erano già tutti qui: che pubblico educato. Alle 21 esatte, in più, comincia a rumoreggiare. Ancora dieci minuti, si spengono le luci e il brano che fa da accoglienza all’ingresso della band è "Saturday night fever". Comincio a capire cosa intendesse la ragazza all’ingresso.

 

Allora è meglio partire dalla fine: se qualcuno fosse venuto al concerto pensando di ritrovare sul palcoscenico le policromie sonore dei dischi, quelle nuances a volte dissonanti che la band è capace di offrire, e poi le virtuose esposizioni che Conor Mason frequenta con disinvoltura, è meglio che le dimentichi. Qui come prima cosa, quasi un manifesto della serata, si balla. Una scaletta pensata proprio per questo, con il primo respiro, dopo una vertiginosa sequenza di brani che tirano il coro e le mani battute all’unisono (lo so, un effetto un po’ vintage), che arriverà solo alla metà esatta del concerto con "If I get High" e "Sorry" a fare da spartiacque, con tanto di torce dei telefonini accese e cori del pubblico pagante.

Il “prima” sono stati nove brani di puro invito ad agitarsi, da "Welcome to the DCC" a "Tomorrow is closed", fino al buon vecchio Rock che sembra fare capolino nei riff di chitarra all’unisono e nell’incedere devastante di "If I were you". Dopo aver preso fiato, la seconda metà del concerto ricalca piuttosto fedelmente la prima con "do you love me yet" a riportare su il ritmo e ad offrire uno dei pochissimi (direi due, se non ho contato male) soli di chitarra. A seguire "DCM Jam", pezzo strumentale che mi ha ricordato alcune atmosfere noise e mi è parso il migliore del concerto.

 

Tutto bene, quindi? Si e no. Il si è rappresentato dalla capacità che la band ha dimostrato di tenere vivo il pubblico anche nei momenti in cui nel passaggio fra un brano e l’altro a volte si scontava una certa disomogeneità, nonché quando (non saprei dire se per inconvenienti tecnici o cambio di strumentazione più macchinoso del normale) le luci sul palco sono rimaste spente per alcuni secondi di troppo.

Il no in fondo è il rovescio della medaglia di quanto detto prima. Per tenere un tiro continuo la band ha rinunciato a esporre con chiarezza quello che secondo me è uno dei loro pregi migliori, vale a dire la capacità di frequentare atmosfere e sfumature piuttosto diverse, restituendo all’ascoltatore un’esperienza che non è solo muscoli ma anche tanta introspezione. Cassa in quattro e chitarrone è una cosa che rassicura (e, aggiungo, evita disavventure nell’esecuzione) ma alla fine sa troppo di normalità. Un altro no (ma non è colpa di chi stava sul palco) è la risposta alla mia domanda se l’acustica del palasport fosse finalmente migliorata. Purtroppo certe cose non cambiano mai. Un po’ troppo minimal, infine, la scenografia affidata quasi esclusivamente alle luci e ad un lancio di fogliettini di carta sul pubblico (non sono riuscito ad acchiapparne al volo nemmeno uno).

Mentre esco, (in anticipo sulla conclusione del concerto, devo ammetterlo) do un ultimo sguardo al pubblico e mi rendo conto solo adesso che nonostante fossi nel parterre in mezzo ad una folla di ragazzi cantanti e ballanti nessuno, nemmeno per errore, mi ha urtato. Che pubblico educato, che band educata.

Sarà finito Sanremo a quest’ora?