Dovrebbe esistere una legge che obblighi l’ascolto di un disco innanzitutto interamente e poi per almeno cinque volte prima di permettersi un giudizio.
E si dà il caso che l’opera di Pino Palladino e Blake Mills possa esserne fulgido esempio. E’ difficile trovare una tale commistione di generi condensata in trentun minuti, spesso all’interno di ogni singolo brano. Funk, Jazz, Fusion, Folk, Ambient, Afro e Cuban Music, insomma chi più ne ha più ne metta.
Tutto ciò arriva all’orecchio piano piano, si gusta come si può sorseggiare un bicchiere di buon whisky, ci vuole tempo, non è come ingurgitarsi a tutta velocità una qualunque birra chiara. A volte, difatti, assaporare lentamente è meglio che mandar giù in fretta. Una fretta che Palladino, eccelso bassista, sessionman di primo livello, non ha mai avuto per pubblicare un album tutto suo.
Così l’eclettico artista comincia una nuova vita a sessantatré anni, raccogliendo alcune sue composizioni elaborate nel tempo e, con l’aiuto di un altro personaggio che non ha bisogno di presentazioni, il funambolico musicista e produttore Mills, sforna un’opera intrigante, per palati fini, in grado di sfruttare la capacità di creare suoni nuovi da parte di quest’ultimo, il quale pochi anni fa, esplicitò questa dichiarazione di intenti: “I miei musicisti preferiti sono coloro che provano una certa insoddisfazione nel suono del proprio strumento”.
Risulta evidente proprio questo desiderio di uscire dai sentieri, per certi versi sicuri, percorsi ad esempio con The Who, John Mayer Trio, Jeff Beck, D’Angelo, Richard Ashcroft ed Elton John-anche se con i nomi citati Pino già dimostra una notevole duttilità musicale- per confrontarsi con l’artefice di nuove sonorità per Jim James, Fiona Apple, Alabama Shakes e John Legend nonché chitarrista, compositore con già quattro opere pubblicate alle spalle.
Diciamo subito che questa insolita coppia rappresenta il fulcro sonoro di tutta l’operazione. Palladino e Mills suonano una quantità infinita di strumenti, con il primo ovviamente disinvolto nel cimentarsi in ogni variante di basso, anche sintetizzato, e il secondo maestro nelle distorsioni fuzz della chitarra, abilissimo poi a svariare dalla slide fino al Coral electric sitar. Anche le percussioni sono il punto forte di Blake: berimbau e marimba accentuano la componente sperimentale, specie se abbinate all’elettronica (fa capolino anche lo string synthesizer).
Già il nome del disco dimostra la giocosità dell’operazione, Note con Allegati, e fin dalla prima traccia, Just Wrong, si rimane come sospesi tra eteree melodie, bruscamente interrotte per virare verso un ritmo sincopato, in cui il basso e il sassofono sono perfettamente integrati, si intrecciano e sovrastano vicendevolmente a meraviglia coadiuvati da un incessante tappeto di suoni. Il violino e la viola di Rob Moose appaiono qua e là, ad aumentare il pathos della trama musicale.
Soundwalk è sorprendente, sembra davvero, come dice il titolo, che il suono cammini, grazie al fantasioso incedere della cadenza data dal fenomenale batterista Chris Dave (presente anche in veste di compositore in questa raccolta che prevede la sesta traccia intitolata proprio con il suo nome) ed è un piacere incocciare nell’Hammond B3 e nella celeste di Larry Goldings, un nome una garanzia, basterebbe chiedere a James Taylor, Robben Ford e Herbie Hancock.
Un altro ospite di rango è il geniale Andrew Bird, che concede “pennellate” di violino in Ekuté dialogando con il bass clarinet di Marcus Strickland. Quest’ultimo partecipa al progetto anche come sassofonista, insieme a Sam Gendel, uno dei talenti più spregiudicati del panorama jazz, perfetto a demolire e ricostruire i canoni del sound di tale strumento.
La breve, ma efficace title track resetta l’ardore dei primi pezzi garantendo un po’ di relativa tranquillità per un paio di minuti mischiando Miles Davis ai Weather Report.
Si riparte forti con Djurkel in cui è intrigante l’idea di avere sassofono, clarino e violino che si rincorrono per poi diventare paralleli sui due canali audio –per questo e svariati altri motivi è caldamente consigliato l’ascolto in cuffia- e infine si plana su Man From Molise, unico brano in cui Palladino fa tutto da solo dal punto di vista compositivo, senza il solito apporto del proprio compare, comunque sempre al suo fianco tra marimba e wordless vocals. Pur se non perfettamente riuscito è ad ogni modo un pezzo rilevante che rievoca le origini italiane di suo padre, nativo di Campobasso.
Siamo giunti così al termine di questo insolito e intrigante viaggio sebbene la conclusione con l’insipida Off The Cuff paradossalmente lasci un pizzico d’amaro in bocca. Ci si aspettava un finale col botto e invece arriva un brano sin troppo minimale, che starebbe bene a fare da colonna sonora a un documentario.
Detto questo, la versatilità ed eterogeneità di Notes With Attachments sono lo specchio degli anni che stiamo vivendo, fotografati con suoni e atmosfere senza tempo. Si tratta, quindi, di un album destinato a durare.
Non rimane che goderselo… e se entrerete in sintonia con queste Note vi si aprirà un nuovo mondo, rimarrete stupiti di come e quanto si possa costruire ancora nella musica toccando territori ancora poco conosciuti.