Offenbach
Saint-Chrone de Néant (1973)
Il giorno 30 novembre del 1972 gli Offenbach, un rampante gruppo di Montreal con un solo album all'attivo, tenne un concerto promozionale all'oratorio di Saint Joseph in occasione della Messa per i Defunti.
Dominato dalle immani tastiere ascensionali di Gerard Boulet, nonché dall'organo di Pierre-Yves Asselin, l'esibizione si rivelò una mastodontica cerimonia rock, sulla falsariga della Messa in Fa Minore degli Electric Prunes o ancor più del famigerato Ceremony degli Spooky Tooth. Interamente trasmesso in diretta dalla CHOM, rappresentò uno dei momenti determinanti nell’affermazione del Quebec Prog.
Cantato in latino, con sermoni recitati in francese e inglese, sommerso da una spessa ombra gotica da secoli oscuri, squassato da terremoti di prepotenza metal e sospeso in minimalisti mantra da Florian Fricke, rifulge del naturale eco del ventre dell' Oratorio di St. Joseph. Gli 11 minuti di Pax Vobiscum, le incessanti spirali in crescendo del Kyrie, l'hard rock teatrale del Dies Irae, le spazialità pinkfloydiane di Domine Jesu Christe e Memento, il volume che trasudo fragoroso da ogni traccia: tutto appare bizzarro ma perfettamente collocato nel luogo e nel tempo.
L'anno dopo, la Barclay distribuì ufficialmente Saint-Chrone de Néant.
A tutt'oggi un documento impressionante.
Harmonium
Harmonium (1974)
Musica della terra.
Brani di raffinato folk prog, morbidi, saldamente scritti sulle circonvoluzioni di già mature chitarre acustiche che giocano a Renbourn e Jansch. Una personale incorporazione di Pentangle e Incredible String Band, con i sorrisi di Judy Blue Eyes e i meno arrembati Marshall Tucker, nel mezzo dei campi di grano appena prima del raccolto. Ma in nuce pure la presenza di modanature di flicorni che evocano cacce spagnole, gocce umide di vibrafoni, minime armonizzazioni vocali da sfondo. Misurato ed elegante, esemplare nella malia di Un Musicien Parmi Tant D'Autres.
Harmonium
Les Cinq Saisons (1975)
È con il secondo LP che Serge Fiori sfonda la porta del folk sinfonico ad ispirazione georgica, con le raffinatezze di un Bryter Layter strappato alla città dei più fanciulleschi Genesis.
Cinque brani, un concept vivaldiano sulle stagioni, a cui se ne aggiunge una quinta, che qui assume la forma dei diciassette minuti di Histoires Sans Paroles: folklorismi misteriosamente narrativi, splendidamente arrangiati per un crepuscolare ensemble da camera elettroacustico. Fascinosissima la riflessione tra nebbie di mellotron, clarino e chitarre indiane di Depuis L'Automne.
L'armamentario strumentale si amplia a dismisura fino a comprendere mandolini, clarinetto basso e ogni tipo di flauto assieme a tastiere elettroniche, ed escludendo del tutto le percussioni, ma con il prominente francesismo dell'accordéon di Michel Normandeau.
Ammaliante cerimonia squisitamente pagana, ma amorevolmente disponibile ad ogni confessione. Sognanti e delicate le illustrazioni di Louis-Pierre Bougie.
Maneige
Maneige (1975)
Il mostro emerge suadente dalle acque, con canto dissonante librato tra stormi tropicali.
Le Rafiot, immane poema sonoro che rivelò al mondo i Maneige, tra i più straordinari sestetti progressisti che possiate immaginare. Phallus Dei, quartetti free jazz, rumorismo patafisico, finché il Medioevo di un flauto cortigiano seduce quel che resta di un harem imbellettato che esiste solo nell'immaginario di un folk senza terra.
Una macchina che tritura un quinquennio di esperienze prog appena trascorse e le risputa in una sarabanda che diventa un caleidoscopio impazzito nelle mani di un maestro impressionista che rinuncia all'immagine del reale e rimescola timbri e coloriture senza necessità di una struttura scritta. Rimane il mistero sotteso al tutto, il mistero di un pifferaio multicolore che scaccia i ratti dalla città.
Un album talmente zeppo di temi, idee, armonie - le sole Une Annèe Sans Fin e Galerie III basterebbero a foraggiare intere discografie di gruppi Vertigo - che trabocca come una cornucopia senza voce, capace di abbracciare la sonata, la danza percussiva, le case di cristallo e il rito dell’Art Ensemble of Chicago.
Sloche
Stadacone (1976)
Seguito ideale di J’Un Oeil, ma meno rassicurante del precedente. Costruito nel mezzo degli estremi dipolari di Stadaconè e Isacaaron (Ou Le Démon Des Choses Sexuelles) jam strumentali fantasiose, la prima come un poliziesco urbano alla Lalo Schifrin suonato da Isaac Hayes, la seconda un grande ingranaggio a percussione di subdola narrazione sinfonica, degli ELP esoterici e sotterranei.
Nel mezzo, proposte più concise come l'intrigante tema da serenata di Tatooine di Le Cosmophile (con bel intermezzo di sax), favole thriller per vibrafoni elettrici, ultrafunk futuribili da ghetto a 4 stelle e le lunghe grinfie dei Weather Report. Con perizia tecnica invidiabile.