L’Infonie
L’Infonie (1969)
Un’enorme opera di avanguardia, in prima fila nella rivoluzione globale del rock di fine anni ‘60.
Orchestra classica free-form, inserti concreti, rumori d’ambiente, sketch di teatro canzone, beat poetry e l’ombra erratica del fantasma di Ornette Coleman. E non solo.
Una scaletta frammentata come un collage surrealista, potresti sentirci dei Faust Tapes rimontati da Charlie Haden in crisi d’astinenza. Ma anche il techno-psych di J’ai perdu 15 cent…, lo pseudo funk da cabaret per freak di Viens Danser, la meditazione per fanfare di ottoni che chiude Finale.
Una proposta talmente datata ed a suo modo estrema da risultare piacevole in questi nostri poverissimi tempi di crisi globale.
Disco notevolissimo, anche (soprattutto?) al di fuori dei ristretti confini franco - canadesi.
Dionysos
Le Prince Croule (1972)
Suono sommerso e bluastro, come risalito dalle profondità torbide di liquide tastiere atlantidee. Scorrono via una serie di bozzetti romantici ombrosi, di quel romanticismo piagato e ricurvo dei rami delle querce nelle selve di Friedrich.
Un concept da Wishbone Ash, interpretato dagli Atomic Rooster più cupi, a riprova di una ancora stancante influenza di modelli inglesi, come nella purpleana Safari e nella costante ombra lunga degli Uriah Heep.
Eppure, il calendario non mente, e il disco è solo del 1972.
Eppure, le sonate notturne di Terreur et Masque e Chanson du Courage tôt sono pregevoli e personali, come pure il grande affresco conclusivo di Terreur et Joie, che si destreggia con mestiere tra l'acustico, l'ipnotico e il sospiro cosmico.
L'Infonie
Volume 333 (1972)
Jazz prog orchestrale, con ansie di Van Der Graaf intrise di acido e alcuni clamorosi inserti di spirali rotanti west-coast e musique concrète.
Il terzo LP del collettivo è più strutturato dell'esordio, con qualche stilla di consapevolezza che gratta via in superficie lo stupore e la sorpresa degli inizi, ma blinda un altro album di grande post-psichedelia intellettualoide non sempre ironica. Ci sono tutti: Incredible String Band assieme ai Weather Report, Mingus e Dolphy, Grateful Dead e Chicago. Nonché Bach e Beethoven, e un Kyrie che è un corto circuito modulare che riparte sempre dall’ultimo anello.
E chi ci vuole sentire il cabaret dei Gong non lo faccia solo per l'idioma.
In origine fu un doppio LP, il primo dei quali occupato per tutti i 45 minuti dall'immane composizione Paix, divisa in 50 micro parti. Magnum opus che, oltre che diventare il tormento e l'estasi di tutta la carriera di Boudreau, è anche una delle più multiformi, policromatiche e mutevoli opere prodotte dalla musica pop del dopoguerra.
Un'avventura per nuovi umanisti alla ricerca di mondi fertili dalle parte opposta dell'oceano della quotidianità.
Octobre
Octobre (1973)
Album d'esordio devoto ad una rigida forma canzone di 3 minuti cesellata da un pop appena barocco, che rinuncia all'epica e alla dismisura del puro prog, ma riemerge raffinato come fossero degli Zombie non dimentichi di azzurrine finestre spalancate su un jazz liscio in cui pianoforte e tastiere elettriche multiformi menano le danze con gusto e misura, oltre che solido mestiere.
Manifesto precoce che traccia il solco iniziale di un plausibile umanesimo pop urbano, trascinato nelle piazze dall’anthem de La Maudite Machine.
Octobre
Les Nouvelles Terres (1974)
Titolo da nuova frontiera, dove le parti strumentali vanno espandendosi, la canzone si dilata in pièce sì misurata, ma risultante da incastri di ritmi e parti polimorfe. Aumenta la teatralità delle grandi scene acquerellate da chiaroscuri di tastiere e sintetizzatori mai invadenti, lo spirito di denuncia e antagonismo è presente (Violence, coro da schiere vichinghe), ma raziocinante, allegorico (Le Chant du Guerrier), non massimalista, mitigato da una ormai matura vena pop, disponibilissima al funky bianco da Climax Blues Band, che si prende il lusso di azzeccare anche refrain accattivanti, leggeri, semplici ma non facili.
Eccezionale l’energia che sprigiona il grande poema Generation, un' opera dai due o più volti che vira dalla compostezza di marmi neoclassici al più scatenato hard rock autostradale.
Sloche
J’Un Oeil (1975)
Volo a planare su tramonti spaziali tra l'arancio e il violaceo, sugli oceani di Pandora, accompagnati dai multistrati elettronici di synth e tastiere accattivanti e curvilinee.
Cinque brani estesi che rileggono a fondo ELP, spogliandosi di pastoie classiciste per divagare in un ultra funk da New Orleans post moderna, percorsa da tremori seriali e le tachicardie elettroniche di Gentle Giant prestati a Canterbury con tanto di parti vocali da coreuti inquieti, thriller ipertecnologici per pianeti di robot trasformabili. Le Karême D'Eros e, in coda, il flash funk robotronico di Potages Aux Herbes Douteuses che galleggia su quelle stesse bolle saponose su cui appoggia tutto l'album: parti strumentali esasperate, metalliche, ma non esagerate. Stordisce l'assalto di una doppia batteria di tastiere, manovrate fra l’altro da un prodotto raffinato del Conservatoire de Musique de Quèbec come Rejean Yacola.