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REVIEWSLE RECENSIONI
02/03/2021
Celeste
Not Your Muse
L’impressione odierna è di aver davanti un’artista che, pur rimanendo costantemente nel solco della tradizione, abbia trovato la dimensione ideale per proporsi al pubblico. Merito forse dell’incontro con l’opera di Sun Ra, che le ha spalancato nuovi orizzonti...

Non ci sono arrivato subito ma questa è la stessa Celeste che mi capitò di vedere dal vivo in compagnia di Michael Kiwanuka, in occasione di uno degli ultimi concerti di un certo peso, prima che la pandemia arrivasse ad azzerare tutto. Si era al Fabrique di Milano e lei suonò in apertura per una quarantina di minuti in compagnia della sua band. È probabile che fossi impegnato a chiacchierare con qualcuno (sì lo so, mi incazzo quando lo fanno gli altri ma ogni tanto ci cado anch’io) perché di quell’esibizione mi ricordo ben poco, se non un vago senso di piacevolezza unito ad un’impressione di noia diffusa.

In effetti mi ha lasciato poco o nulla perché mentre faceva incetta di complimenti e riconoscimenti un po’ dappertutto, io semplicemente non me ne accorgevo.

Oggi che il suo primo disco è finalmente uscito, non ho potuto ignorare le lodi sperticate degli addetti ai lavori e mi sono messo seriamente a capire se la ventiquattrenne britannica meritasse davvero tutte queste attenzioni.

Nata a Culver City, California, da madre inglese e padre giamaicano, Celeste Epiphany Waite dopo la separazione dei genitori si è trasferita in Inghilterra con la madre ed è stata cresciuta da lei, prima a Dagenham poi vicino a Brighton, per poi trasferirsi stabilmente a Londra, dove vive tuttora.

Classe 1994, ha iniziato sin da bambina a studiare danza e si è interessata alla musica abbastanza presto, influenzata dagli artisti che risuonavano dallo stereo di casa: Aretha Franklin, Marvin Gaye, Otis Redding, Tammi Terrel.

Ci ha messo un po’ a trovare la sua dimensione, lei stessa racconta di lunghi anni in cui le sembrava di non essere all’altezza, che le cose che scriveva non avessero l’impatto giusto. Poi pian piano ha cominciato ad ingranare: il primo singolo “Daydreaming”, fuori nel 2016, nel 2018 il primo successo con “Both Sides of the Moon”, nel marzo del 2019 l’ep “Lately” che ne ha rivelato il talento al mondo.

Da qui il già citato tour con Michael Kiwanuka e la vittoria di un Rising Star Brit Award, oltre ad un’ulteriore visibilità ottenuta con la partecipazione alla cover di “Times Like These” dei Foo Fighters, iniziativa benefica intrapresa in compagnia di gente come Ellie Goulding e Dua Lipa; abbastanza carne al fuoco da rendere questo “Not Your Muse” uno dei lavori più attesi di questo inizio anno, insomma.

Ero probabilmente distratto, quella sera di dicembre del 2019, oppure la Celeste che si può sentire su queste canzoni c’entra davvero poco coi miei ricordi sfocati. L’impressione odierna è di aver davanti un’artista che, pur rimanendo costantemente nel solco della tradizione, abbia trovato la dimensione ideale per proporsi al pubblico. Merito forse dell’incontro con l’opera di Sun Ra, che le ha spalancato nuovi orizzonti, come ha dichiarato recentemente; di sicuro è stato decisivo il sodalizio con Jamie Hartman (“Un autore Pop con il Jazz nelle corde”, così lo ha definito) che ha prodotto il disco e ha scritto con lei gran parte dei brani, aiutandola in maniera non indifferente a mettere a fuoco il proprio songwriting. Se consideriamo che il primo frutto della loro collaborazione, dopo pochi giorni che si conoscevano, è stata la roboante “Stop This Flame”, si può capire abbastanza facilmente quale sia stato il tipo di contributo offerto dal musicista britannico.

Anche negli altri episodi, “Not Your Muse” vive di una scrittura di altissimo livello, che esalta le indubbie capacità vocali di Celeste sia negli episodi più intimisti (l’apertura di “Ideal Woman” e la hit “Strange”, uscita già a fine 2019 come singolo, sontuosa ballata Soul con piano e orchestrazioni) sia in quelli più ritmati (“Tonight Tonight” o “Love Is Back”, sostenute da un gran lavoro di fiati).

Niente di nuovo, per carità, ma anche gli episodi che fanno uso di artifici melodici stracollaudati funzionano alla grande: è il caso di “A Kiss”, bellissima e straziante ballata pianistica in punta di piedi, oppure “A Little Love”, mood cinematografico e atmosfere anni ’50.

Un esordio di gran classe, che conferma e migliora quanto di buono fatto vedere finora. Mi riprometto di rivederla dal vivo per godermela finalmente appieno.


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