Raramente leggo le recensioni dei dischi su cui devo scrivere, quindi non ho idea di come sia stato accolto questo dagli addetti ai lavori; d’altra parte però, dubito che Rolling Stone (nome a caso, eh!) abbia avuto il coraggio di stroncarlo.
Non lo farò neppure io, in definitiva. I Coma_Cose mi piacciono e li ho sempre considerati come uno degli act più interessanti usciti in Italia negli ultimi anni, vorrei continuare a farlo anche nel momento in cui, da Sanremo in avanti (ma qualcuno dice da molto prima), sembrano aver perduto la spinta propulsiva.
“Fiamme negli occhi”, a risentirla adesso assieme agli altri inediti, è decisamente un bel pezzo ma è innegabile che rappresenti un accomodamento del loro sound, con un abbandono pressoché totale dell’ironia caustica, dei divertenti giochi di parole e dello spericolato giocare con le figure retoriche che erano un po’ divenuti il loro marchio di fabbrica; allo stesso tempo, hanno lasciato da parte gli stilemi del Rap per abbracciare una più compiuta forma canzone, modulando meglio le voci e mettendo al centro l’immediatezza del ritornello. Ha funzionato, certo, li ha fatti scoprire da tanta gente che non aveva la più pallida idea di chi fossero e ha indubbiamente elargito loro una nuova e più abbondante dose di esposizione mediatica.
Il prezzo da pagare, tuttavia, potrebbe essere stato alto e rimane oltretutto la sensazione che se anche fossero rimasti più uguali a loro stessi la risposta del pubblico non sarebbe stata minore.
“Nostralgia” parte da un grande equivoco, che solo l’educazione e la serietà professionale ci impedisce di chiamare “presa per il culo”: sei canzoni (tra cui quella sanremese, già abbondantemente nota) + outro che di fatto è un vocale whatsapp, per un totale di 21 minuti di musica non si possono definire “disco” neanche se sei ubriaco fradicio da cinque giorni di fila. Ho ascoltato Ep più lunghi nei mesi scorsi (uno su tutti, il meraviglioso esordio dei King Hannah di cui ho parlato sempre su queste colonne) e sarebbe ora di smetterla di adoperare tutta questa sudditanza psicologica nei confronti delle playlist, delle logiche commerciali degli stream e dell’ormai acclarato deficit di attenzione dell’ascoltatore odierno. Anche perché, se poi si va a fare un giro sul loro profilo Facebook, di lamentele per aver dato alle stampe un lavoro eccessivamente breve se ne trovano abbastanza.
Andando poi ad analizzare il contenuto, di motivi per gioire non ce ne sono molti: il principale è senza dubbio “Mille tempeste”, traccia di apertura che recupera le suggestioni Hip Pop degli esordi, il collage tra parti tra loro eterogenee, una certa libertà espressiva ed un’atmosfera cupa che la fa assomigliare vagamente a “Golgota”, seppure il livello qualitativo sia decisamente più basso. Avrebbe potuto costituire un paradigma su cui modellare il resto del lavoro, in parziale continuità col loro spettro stilistico e non sarebbe stato male.
La realtà è diversa: arrivati al successo sull’onda di un eclettismo stilistico e di una disinvoltura nel muoversi tra generi e suggestioni differenti, Fausto Lama e California scelgono di adagiarsi su una forma canzone che sta a metà tra il cantautorato battistiano e l’It Pop, cosa che comporta soprattutto un utilizzo canonico delle voci. E qui probabilmente stanno i problemi principali. Perché se è vero che per fare i cantautori, e soprattutto in queste ultime generazioni, non serva poi così tanto saper cantare (gli esempi di Calcutta e Gazzelle dovrebbero bastare da soli) è altrettanto palese che il duo in questione non abbia mai brillato neppure sul livello minimo. La loro forza è sempre stata nel Flow e soprattutto Francesca, in possesso di un timbro affascinante e di una notevole espressività, ha dimostrato già in passato di non essere propriamente a suo agio con le melodie tradizionali. Il risultato è quindi a tratti impietoso e rovina soprattutto due brani, “Discoteche abbandonate” e “Zombie al Carrefour” che sono nel complesso gradevoli (la seconda soprattutto, con un accompagnamento di piano elettrico che ne accentua il mood intimo e notturno), pur non raggiungendo le vette emozionali di una “Anima lattina”, per dire.
Risulta un giro a vuoto “La canzone dei lupi”, un feeling ottantiano nelle melodie e nel complesso piuttosto prevedibile. Molto meglio “Novantasei”, un buon brano Power Pop con tanto di chitarre distorte, sorta di tributo ai tempi (perduti per sempre?) dei concerti nei piccoli club e trascinante al punto giusto, nonostante l’evidente carattere didascalico.
Un altro importante motivo di malcontento potrebbero essere i testi: l’impressione è che, col passare del tempo, Fausto e Francesca abbiano voluto sempre di più mettere a tema il loro rapporto, che di per sé non sarebbe stato un male, se non rischiassero di diventare sempre più monotematici e sdolcinati. Poi per carità, questa rievocazione a tinte malinconiche del passato, sempre sul filo di una nostalgia per oggetti e luoghi che definivano un’epoca, questo sfociare in un presente fatto di spese notturne e di mille tentativi per mantenere intatta la propria libertà, avrebbe potuto risultare anche interessante sulla carta, ma purtroppo questo modo molto sentimentale e troppo poco autoironico di trattarlo, lo ha invece reso stucchevole.
Cosa ne sarà di loro non ne ho idea, così come vorrei lasciare perdere ogni dietrologia sul perché di colpo abbiano intrapreso questa direzione. Sorge tuttavia un sospetto: se avessero esordito con queste canzoni, difficilmente avremmo parlato di loro a lungo. Anche così, forse, rischiamo di perderli per strada: non c’è molto da fidarsi della fedeltà del pubblico, in un’epoca di ascolti così effimeri e volatili. Ma l’avevo premesso all’inizio: “Nostralgia” non deve per forza significare la fine dei Coma_Cose: prendiamo atto di ciò che di buono contiene e aspettiamo il seguito.