Quando sette anni fa Lana Del Rey è venuta in Italia a presentare Born to Die, la cosa su cui tutti hanno disquisito per giorni era se le sue labbra fossero naturali oppure ritoccare. Distratti com’erano dalla sua immagine di femme fatale, con quella voce fumosa, l’immagine languida e il portamento da modella, ben pochi avevano capito quanto innovativa fosse la sua proposta musicale – un inedito mix di Pop alternativo, Trip hop, Dream pop e Pop barocco – e quanto dietro il personaggio di Lana Del Rey, pseudonimo di Elizabeth Woolridge Grant, si nascondesse in realtà una cantautrice di razza, con le idee chiare e un bel po’ di cose da dire.
Trainato da “Video Games” e “Blue Jeans”, Born to Die era un album Pop dalle tinte Noir, nel quale Lana raccontava storie ambientate in una California immaginaria, glamour e malinconica, popolata da sad girls e bad boys. Una formula che ha avuto un’immediata fortuna commerciale e che con il tempo ha saputo guadagnarsi anche i favori della critica, soprattutto dopo l’uscita di Ultraviolence, prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys. Lì finalmente Lana ha raggiunto l’ideale di artista che voleva essere fin dall’inizio: una torch singer del nuovo millennio. Un modello che è stato perfezionato con Honeymoon e, soprattutto, con il successivo Lust for Life, un album formalmente impeccabile che si può leggere come la chiusura di un ciclo di lavoro lungo cinque anni.
Anticipato dai singoli “Mariners Apartment Complex” e “Venice Bitch”, Norman Fucking Rockwell! va inteso come un nuovo punto di partenza per Lana Del Rey. Infatti, se prima attingeva a piene mani dagli stilemi del Pop americano classico integrandolo con ciò che passava in classifica (in Lust for Life le ritmiche erano Trap) e riferimenti da Millennial, con Norman Fucking Rockwell! Lana guarda per la prima volta alla California degli anni Sessanta e Settanta, quella di Joni Mitchell e CSN&Y, con canzoni costruite sul pianoforte, gentili arpeggi di chitarra acustica e la quasi totale assenza di batteria.
Prodotto e composto per la maggior parte con la collaborazione di Jack Antonoff – che ultimamente si è specializzato nel lavorare con giovani artiste donne come Lorde e Taylor Swift e che qui suona praticamente ogni strumento – Norman Fucking Rockwell! è un album dalle dinamiche rilassate e, nonostante (o forse proprio grazie a) la sua classicità, assai visionario e coraggioso. La durata media delle canzoni si fa più generosa, le atmosfere sono più dilatate e, in alcuni casi, Lana non ha paura a flirtare con una certa psichedelia da Laurel Canyon. In “Venice Bitch”, infatti, dopo un delicato inizio tra archi al Mellotron e chitarre acustiche, inizia un lungo tratto meditativo sostenuto da synth, voci eteree e un assolo di chitarra che sembra fatto di seta. E il risultato, una lunga cavalcata di oltre nove minuti e mezzo, si fa più eccitante a ogni ascolto.
In “Mariners Apartment Complex” e “The Greatest” l’influenza dei lavori dei grandi cantautori degli anni Settanta è palese, tanto che il primo sembra un pezzo del Neil Young periodo After the Gold Rush (ma nel ritornello Lana cita Leonhard Cohen), mentre nel secondo, dai colori leggermente più oscuri, fa capolino fugacemente la figura della prima Stevie Nicks, quella di Buckingham Nicks e di Fleetood Mac, con il suo carico di misticismo e melodia. Ma ci sono richiami sparsi anche alle produzioni più elaborate tipiche degli anni Sessanta (alle quali Jacob Dylan ha dedicato il documentario Echo in the Canyon), come è evidente in “California”, bella carica di orchestrazioni e realizzata non a caso assieme a Zach Dawes dei The Last Shadow Puppets, e “How to Disappear”, che sfoggia una chitarra quasi Surf. Il momento più bizzarro è invece senza dubbio la cover di “Doin’ Time” dei Sublime, che a sua volta era una rivisitazione di “Summertime” di George Gershwin, a cui Andrew Watt (braccio destro di Post Malone) ha dato un tocco Trip hop; mossa filologicamente corretta, per un pezzo del 1997. L’unico momento in cui ricompare la “vecchia” Lana è in “The Next Best American Record”, realizzata con il produttore di sempre Rick Nowels, talmente eterea che sembra quasi uscita da Ray of Light di Madonna.
Norman Fucking Rockwell! si conclude con i sei minuti di “Hope Is a Dangerous Thing for a Woman Like Me to Have – but I Have It”, un pezzo per piano e voce che è un omaggio a Sylvia Plath, nel quale Lana riflette sul suo tormentato rapporto con la celebrità e dove parla della sua lotta all’alcolismo. Una canzone che è l’esempio perfetto della mutazione compiuta da Lana con questo disco: se un tempo si sarebbe crogiolata con una certa soddisfazione nella sua inconsolabile tristezza, oggi nel suo songwriting c’è spazio anche per la speranza.
Con la sue melodie placide e le scelte rischiose di scrittura e produzione, Norman Fucking Rockwell! è senza dubbio l’album migliore realizzato da Lana Del Rey finora, una perfetta descrizione in musica delle sensazioni che si possono provare passeggiando lungo quelle meravigliose 25 miglia di spiaggia che vanno da Malibù fino a Venice Beach passando per Santa Monica. Insomma, dopo cinque anni di amori andati male, problemi personali e alienazione da troppo lavoro, con Norman Fucking Rockwell! scopriamo che anche nella California di Lana Del Rey ogni tanto splende il sole.