Classici, classicissimi, immarcescibili come tutte le cose buone che resistono alle angherie del tempo, all’effimera vacuità delle mode, alle rivoluzioni della società. E ci fanno stare bene, benissimo, toccando le corde della nostalgia e accarezzando le nostre orecchie stanche, bisognose di musica di qualità. I Pet Shop Boys mettono in moto la loro ancora scintillante macchina del tempo, e arrivano fino a noi, per insegnare ai comuni mortali come si scrive la perfetta canzone synth pop.
Un suono famigliare, immediatamente riconoscibile, sciccosamente vintage, eppure così incredibilmente moderno. Sarà la scarsa obiettività del fan, o il desiderio, impossibile da sopprimere, di vedere l’effetto che fa tornare ragazzini, quando ormai ci si è inoltrati nell’autunno della vita. E provare le stesse emozioni di quando mettevamo sul piatto dischi epocali come Actually o Introspective.
A prescindere, tuttavia, dalle inevitabili pulsioni passatiste, e rivestendo gli abiti dell’obiettività, queste dieci canzoni, che prendono alternativamente le sembianze di inni dance e ballate romantiche, sono di qualità eccelsa, tanto da sorpassare per ispirazione quelle contenute nel precedente e ottimo Hotspot (2020).
Un disco, Nonetheless, che prende anche posizioni su temi sociali e politici, e che celebra quelle emozioni, uniche e diverse, che rendono gli esseri umani un sistema complesso, affascinante e ricco di sfumature.
Che i due “ragazzi” londinesi siano in forma smagliante lo si capisce subito dall’iniziale "Loneliness", in cui Tennant invita esplicitamente a rompere tutte le catene autoimposte dalla solitudine (e dalla diversità) per svelarsi, uscire alla luce e vivere la propria esistenza con pienezza. Siamo di fronte a una canzone che si posiziona tra i grandi classici della band, un sublime connubio in cui convivono ritmica house, struggente malinconia e un ritornello che spappola il cuore. La mano calibratissima di James Ford (Depeche Mode, Blur, etc) veste la canzone (e l’intero disco) di arrangiamenti scintillanti, asciugando certi eccessi barocchi e plasmando l’elettronica con elementi classici (archi, ottoni), per mettere in risalto l’aspetto più squisitamente romantico e malinconico della scrittura.
La successiva "Feel" mantiene altissima l’asticella dell’ispirazione grazie a una melodia leggera, a tratti incorporea, e a un riuscitissimo gioco di sovrapposizioni vocali. Dopo un inizio così emozionante è evidente il motivo per cui Tennant e Lowe siano ancora sulla cresta dell’onda dopo quasi quarant’anni di attività; e anche quando il duo si abbandona a qualche deriva “tamarra”, come nell’europop di "Why Am I Dancing?", lo fa con una classe e un eleganza uniche, che rende l’eccesso un riuscito esercizio di stile.
Consapevoli dell’ormai acquisito status di leggende pop, eppure sempre lontani dalle pose dello star system, Tennant e Lowe apparecchiano un disco con il loro consueto stile, alternando, come dicevamo, brani dance a ballate umorali e radiofoniche, tenendo i piedi ben piantati negli anni ’80 e gettando talvolta lo sguardo a dare un’occhiata nel decennio successivo. Ma non c’è un filo di ruggine, né cali di tensione, nè usura: tutto suona fresco e immediato, e stupisce trovarsi di fronte a un filotto di canzoni, più o meno tutte, dello stesso livello. Niente che sia nuovo e che non sia già stato ascoltato, ovviamente, e né si registrano tentativi di modernizzare l’approccio, cosa che, crediamo, finirebbe per togliere spontaneità a un suono che è ormai un marchio di fabbrica.
E allora, abbandoniamoci alla nostalgia carezzevole di "New London Boy", il cui rap richiama alla memoria addirittura "West End Girls", o alla ritmica pulsante di "Dancing Star", ispirata alla vita del ballerino Rudolf Nureyev, che scappò dall'Unione Sovietica e divenne una star mondiale, un brano che invita al dancefloor con una melodia che se ti acchiappa non ti lascia più andare.
C’è anche tempo per commuoversi, e quando parte "A New Bohemia", è quasi inevitabile, una lacrima scende a rigare dolcemente le guance. Una canzone immensa, così sfacciatamente smaccata nei suoi intenti romantici da lasciare senza fiato: melodia angelica e arrangiamento d’archi vellutato, che sfocia in un finale i cui languori orchestrali evocano il grande Burt Bacharach. Un brano che è sostanza, ma anche estetica, e che veste quella malinconia dandy che da anni è il fiore all’occhiello dei Pet Shop Boys: il tempo della notte si è consumato, l’ultima sigaretta lascia che un filo di fumo lambisca gli occhi arrossati, mente lo sguardo si spinge là in fondo, dove un timido albeggiare delinea i contorni dell’orizzonte.
Tuttavia, il fil rouge che lega insieme il disco è, a ben vedere, un incrollabile senso di ottimismo per un futuro migliore, come catturato nel pop in purezza di "The Schlager Hit Parade", o nel commovente finale di "Love Is The Law", una ballata stellare che chiude il disco, con eleganza e tensione, un omaggio al “carpe diem”, che veicola intense suggestioni edoniste: “Giorni così felici trascorsi nell'ozio, Adesso il mare è caldo e il vino è giovane, La sera porta l'azione e l'attrazione principale. L'amore è uno stato d'animo E un lapsus… L’amore è la legge a cui bisogna obbedire”.
Nonetheless non suggella solo il ritorno sulle scene di due inossidabili demiurghi del pop, ma in un’ipotetica classifica dei dischi migliori dei Pet Shop Boys, si attesta fra le primissime posizioni. Non lasciatevelo sfuggire.