Mi viene in mente che l’ultima volta che ho visto i Non Voglio che Clara è stato nel 2014, proprio qui all’Arci Bellezza, locale che all’epoca non conoscevo e che a partire da quel momento avrei iniziato a frequentare sempre più spesso.
Dieci anni. Un intervallo lungo, soprattutto per un gruppo italiano, ma se si pensa che sono di Belluno, e quindi da Milano e dintorni ci passano meno, e che il tour di Superspleen Vol.1 è completamente saltato a causa del Covid, si può comprendere un po’ meglio il perché di questo iato.
Ancora più strano è poi pensare che, più o meno al tempo di Dei Cani, Fabio De Min e soci fossero headliner alla Collinetta del Mi Ami (li ho visti due volte in quella situazione ma non riesco a ricordarmi di che edizioni si trattasse), un festival che oggi ha tutta un’altra configurazione e che probabilmente non li chiamerebbe più nemmeno per sbaglio.
Siamo solo reduci, dunque? Condannati a guardare con nostalgia ad un passato che non tornerà più? A giudicare dall’affluenza buona ma non esaltante e all’età dei presenti, si direbbe che sia così. Eppure sul palco Fabio De Min è ciarliero quanto basta (anche se Martino Cuman lo stuzzica dicendogli che di solito parla di più) e mostra quel sereno distacco dalle sue canzoni che è tipico di chi va avanti con piacere, senza domandarsi troppo quel che sarebbe potuto essere se la musica italiana avesse preso altre direzioni. Che poi Mackaye, il nuovo disco e sesto della loro carriera, al tema della nostalgia non intende rinunciare, ma il tono è spesso leggero, delicato, pare quasi che la pesantezza degli esordi, che a tratti si colorava anche di cupa disperazione, sia stata in qualche modo superata.
Può darsi che siano solo inutili speculazioni ma l’impressione, per quanto mi riguarda, è che i Non Voglio che Clara negli ultimi tempi abbiano iniziato ad esplorare una scrittura più asciutta, più serena e trasparente, in modo da rendere la loro proposta leggermente più accessibile, per quanto il marchio di fabbrica non ne esca affatto snaturato.
Prima di loro, ed è una gradita sorpresa, c’è Massaroni Pianoforti, che dal vivo non ero ancora riuscito a vedere. Anche con lui il Covid non è stato clemente: lo racconta lui stesso dal palco prima di eseguire “Popcorn (sei un bel film per tutti)”, tratto da quel Rolling Pop che, tra la licenza della Cramps, la distribuzione Sony e la produzione artistica di Boosta dei Subsonica, avrebbe avuto tutte le carte in regola per farlo svoltare, se non fosse successo quello che sappiamo.
Poco male: l’artista di Voghera ha in uscita un nuovo disco, Maddi, un ambizioso concept che declina in chiave contemporanea la figura di Maria Maddalena, e ne presenta una buona parte in compagnia della violinista Francesca Musnicki. Cantautorato classico, con più di un richiamo a De André e con una vocalità estremamente interessante. Canzoni per la maggior parte tristi, scarne ed intimiste, che vanno ad arricchire un repertorio fin qui già molto valido. Aspetto di sentire il disco per intero ma si è trattata comunque di un’ottima anteprima.
I Non Voglio che Clara salgono sul palco poco prima delle 22.30 (orario sempre troppo scomodo in settimana ma sembra che nulla sia destinato a cambiare, purtroppo) e l’attacco non è, come si pensava, quello di “Mackaye” (sarà suonata nei bis) bensì quello de “L’inventore”, sempre dal nuovo disco, al quale segue l’altrettanto nuova “Caffè e ginnastica”. Il sound è molto pieno, la formazione a cinque con l’aggiunta di Edoardo Piccolo alle tastiere rende molto più ricca l’impronta generale e valorizza le varie sfumature. In passato ricordo concerti più raccolti, dove la dimensione elettronica era più presente, più in linea con le versioni in studio dei dischi che all’epoca stavano promuovendo. Qui c’è invece molta più spinta, molta più dinamica, un generale feeling in bilico tra rock e pop che risulta già ben evidenziato dalla successiva “Hotel Tivoli”, proposta in versione decisamente elettrica, con la chitarra di Marcello Batelli in primo piano, a ricamare soprattutto nel finale.
In generale è così, il gruppo spinge molto e il chitarrista si rende spesso protagonista, tra fraseggi e parti soliste, con gli altri che si divertono talvolta ad allungare i finali, con l’effetto di aumentare l’intensità del momento (accade ad esempio su “Le mogli”).
Fabio De Min è in grande spolvero, suona spesso la chitarra acustica ma si sposta più di una volta al Synth, specie in quegli episodi dell’ultimo disco che godono di una maggiore stratificazione sonora. Tra un pezzo e l’altro, come abbiamo detto, non parla tanto ma si capisce che è comunque rilassato e a proprio agio, (molto divertente quando, introducendo “Superspleen”, confessa di non aver mai letto Foglie d’erba di Whitman, ma di averlo citato nel testo perché “crea immaginario”) nonostante il disco nuovo sia alle sue primissime esecuzioni. Mackaye dal vivo funziona benissimo, si conferma un lavoro riuscito ed episodi come “L’identikit”, “Miles” e soprattutto “L’ultimo successo”, profonda ed intensa, con un utilizzo davvero bello del vocoder, risulteranno tra gli episodi migliori della serata.
Peccato solo per “Lucio”, che viene chiesta a gran voce dai presenti in più di un’occasione. Era in effetti stata prevista in scaletta come ultimo bis ma non è stata suonata, presumo per mancanza di tempo, altrimenti non me lo spiegherei proprio (si tratta forse dell’unico caso al mondo di una band che non suoni in concerto il singolo del brano che sta promuovendo).
È anche l’occasione, almeno per me, per ascoltare per la prima volta i brani del disco precedente, che è stato solo sporadicamente eseguito: il Pop ironico e solare di “Croazia” è stato davvero incantevole, ma altrettanto si può dire di “Epica omerica”, col suo ritmo saltellante, mentre “San Lorenzo” ha beneficiato di una resa davvero struggente.
Dispiace per il passato, con cui i bellunesi, almeno in questa occasione, non sono apparsi molto propensi a voler dialogare. Fatta eccezione per la già citata “Hotel Tivoli”, dei primi due seminali lavori non c’è stata traccia; forse, ipotizzo, perché avrebbero stonato con quell’impronta più solare e robusta che hanno scelto di dare al concerto.
Menzione speciale, per fortuna, a Dei cani, che personalmente ritengo il loro lavoro migliore: ne vengono suonati tre brani, tutti alla fine: c’è “Le guerre” (con Fabio che si ferma per complimentarsi con un fan che l’aveva riconosciuta dal primo accordo), sempre tirata ed emozionante, l’algida contemplazione un po’ baustelliana de “L’inconsolabile” e soprattutto “Gli anni dell’università”, quello sì nostalgico, bellezza intrisa di rimpianto che dona un finale amaro al tutto ma canzone assoluta che è stato assolutamente indispensabile ascoltare.
Mi erano mancati, i Non Voglio che Clara e sono stato davvero contento di ritrovarli più in forma che mai, con un disco bellissimo che suona alla grande anche dal vivo. La voglia di rivederli è già tanta.