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REVIEWSLE RECENSIONI
Non chiamarli mostri
Mapuche
2024  (Viceversa Records)
PSICHEDELIA ALTERNATIVE ITALIANA
8/10
all REVIEWS
30/12/2024
Mapuche
Non chiamarli mostri
Il ritorno di Mapuche coincide con un disco immerso in brume lo- fi, paesaggi industrial e intenzioni spoken, a cui si artigliano testi spigolosi e definitivi. Una sorta di post- folk apocalittico, disperato, intenso, disarmante e umano.

Era da un sacco di tempo che non usavo il mondo animale come intro. Ecco, è arrivato il momento di ricominciare, e questo mi sembra il contesto più adatto.

In questa puntata di SuperQuark parleremo della cosiddetta malattia dell’ostrica che, oltre ad essere uno splendido libro (e, prima ancora, spettacolo teatrale e podcast) di Claudio Morici, è, effettivamente, anche biologia.

Sappiamo tutti che le ostriche sono in grado di generare le famose perle. Però magari non tutti sappiamo perché si formano queste perle.

 

Cercando di essere breve (considerando anche che sto parlando di un qualcosa che conosco per sommi capi), l’ostrica genera la perla come meccanismo di autodifesa: la madreperla di cui è fatta la perla altro non è che una stratificazione che l’ostrica forma in reazione all’ingresso, all’interno della conchiglia, di agenti esterni, quali parassiti o granelli di sabbia, che ne feriscono il corpo indifeso.

La formazione della perla serve, in breve, a cicatrizzare le ferite, e la perla non è altro che la malattia dell’ostrica. È altrettanto evidente che la perla è il frutto della vulnerabilità dell’ostrica: se la conchiglia fosse chiusa “ermeticamente”, passatemi il termine, alla perla mancherebbe la motivazione fisiologica per formarsi.

Il sottotesto (che, per inciso, non è neanche farina del mio sacco, dovrebbe averlo detto Karl Jaspers) è evidente: certe manifestazioni di vulnerabilità, così come la presenza di un dolore o di un trauma sono condizioni necessarie per la messa al mondo di una qualche bellezza.

Ecco, Jaspers applica questo discorso proprio a partire dall’arte, e probabilmente ci ha preso alla grandissima. Prova ne è che stiamo per parlare di un disco che, a detta del suo autore, è stato come un incendio che lo ha travolto.

 

Il disco in questione è Non chiamarli mostri, l’autore in questione è Mapuche, al secolo Enrico Lanza. Un album, questo, che è il sesto capitolo di un’avventura discografica cominciata nel 2008, e che arriva a sette anni di distanza dal precedente Il sottosuolo. C’è da dire, a proposito della sua carriera, che l’ottimo Enrico si è sempre affiancato a produttori eccezionali, da Colapesce ad Alessandro Fiori, passando per Cesare Basile. Anche nel caso di Non chiamarli mostri la tradizione è felicemente rispettata, con quel genio pazzo e spigoloso di Dino Fumaretto (aka Elia Billoni) a trovare la sciamanica ed allucinata quadra del tutto.

Si entra in un Cabaret Voltaire di fantasmi e paranoie, una danza macabra fatta di chitarre stravolte e ceneri sintetiche, su cui il timbro alienato e sabbioso di Mapuche sgrana parole pesanti come rocce eruttive.

 

Album aperto dall’asfissiante tappeto sintetico di “L’Orologio”, diradato dall’ingresso ad accordi spiegati del pianoforte e dal mulinellare alienato dell’elettronica, perfetti per accogliere un programmatico: “Lo so che sembra paradossale parlarti del tempo dopo tanto tempo, ma non mi sono mai reso conto, quale grado di autodistruzione ho raggiunto, se avessi dato il giusto utilizzo all’orologio, forse avrei capito quando era l’ora di smettere”.

“Cosa nasconde la mia mente” si srotola lungo il saltellare spastico della chitarra elettrica, su cui valzereggiano un’elettronica sghemba e gli ostinati del piano, perfetti nell’accogliere gli spigoli letterari di “Un lucido pensiero mi tiene lontano dalle luci accecanti, dal calcolo infallibile, la possibilità di assomigliare agli altri, un lamento cupo e nero serve a risvegliare i morti, vorrei farti vedere cosa nasconde la mia mente”.

La title track è sostenuta da un rumore di fondo meccanico ed industriale, su cui sferragliano chitarre decadenti e affogano synth polverosi, a scarnificare ulteriormente la lucidità bruciante del testo: “Ti costringono a scegliere il silenzio e detestare le parole, a procurarti il tuo angolo buio in attesa di tempi peggiori, a scavare nelle ferite perché tu non possa mai dimenticare, ma non chiamarli mostri, questo non lo meritano, non chiamarli mostri, i veri mostri non si nascondono”.

 

“Masso” si tinge di un punk lo- fi, con schitarrate nevrotiche a sminuzzare i disturbi elettronici delle tastiere, ed un testo che arriva come un cazzotto in faccia: “La cosa paradossale che in questo scenario io interpreti ancora il buffone, anche se ho perso la voglia di ridere, perché è impossibile vivere senza mentire e senza credere alle proprie menzogne. A volte mi sento come un masso, che non può testimoniare, quale grado di conforto ci sia nello schianto”.

“Canzone sull’infelicità” viene scorticata dal bouzouki di Alessandro Fiori e da schitarrate elettriche incessanti ed ostinate, con la solita elettronica grattugiata a disturbare i bassifondi del pezzo. Anche in questo caso, poi, Mapuche spara una pallottola letteraria che inchioda in maniera definitiva: “Io non do più la colpa a episodi o tristi circostanze, nella prossima vita sarei un essere ancora peggiore, non ho scoperto nessuna verità toccando il fondo, la truffa più grande è stato essere venuto al mondo”.

A seguire arriva una “Il male oscuro” tratteggiata da uno spoken soffocato da una nuvola catramosa di rumori e nevrastenie sonore, squisitamente in linea con le parole incessanti del testo, “Se solo lo specchio riuscisse a rendere reale, quella parte invisibile che trama di nascosto, che avvelena ricordi, pensieri, intenzioni e si nutre di polvere, si nutre di polvere. Il sottile filo dove rimani appeso è la sola certezza a ogni tuo risveglio, anche se non hai capito mai a cosa ti è servita”.

 

“Lucertola” è anestetizzata da bassi sintetici e corrosivi e chitarre elettriche corrosive e laceranti, scavati dalle solite liriche ad asfissia crescente, “Ma lo sconforto regna sovrano, lo scenario è alquanto confuso, la trama è fitta di nebbia, non si cava un ragno dal buco, la situazione è vicina al termine, ho una brutta convinzione, sono certo se non viene fuori, io qui rischio di impazzire, ma lei non riderà mai più”.

“Gli uomini che lavorano” scorre lungo le trame assillanti degli ostinati di piano, su cui chitarre elettriche e synth addensano tensioni e disturbanze, perfettamente restituite dal cammino incessante del testo: “Resti nell’ombra dove crollano i punti fermi e calpesti la decenza, fa lo stesso chiasso di un’esplosione, fino a sperare di perdere il fiato, a conferma del tuo assurdo momento. Ma sono tornati gli uomini che lavorano, mi hanno guardato in faccia col disprezzo che meritavo, per allungare la distanza, tra la produttività e il mio niente”.

A chiudere il disco ci pensa una “Erlebnis” scandita dalle percussioni ossessive di Tazio Iacobacci, animate, in sottofondo, dalle dissonanze elettriche delle chitarre e dalle incursioni cupe dell’elettronica, ad ammantare un testo spietato: “Di quella parte di me, da quando ne conosco solo gli orrori, appartiene alla vita reale più di me stesso, quella parte di me ha fatto a pezzi il vetro e adesso si confonde con la miseria umana”.

 

In conclusione, siamo all’ascolto di un lavoro che è la totale (e benedetta) destrutturazione di ogni forma canzone “normale”, un flusso di coscienza su pentagramma, di cui arrangiamenti nevrotici e timbri cupi sono l’unica possibile emanazione musicale. Una cascata di vomito acido, che arde le corde vocali, spietato e definitivo. E, proprio per questo, perfetto.