All’inizio del nuovo millennio sembrava che ogni band, anche solo dopo cinque minuti di esistenza, dovesse registrare il suo bel concerto e darlo alle stampe. I gruppi più affermati lo facevano praticamente alla fine di ogni tour. Poi, di colpo, questo tipo di uscite è calato drasticamente. Probabilmente sì è capito che il dvd o il Bluray che fosse, non rappresentava il futuro in termini di fruizioni della musica, come molti in quegli anni ipotizzavano: dopotutto, perché spendere soldi quando YouTube è zeppo di concerti registrati professionalmente? O forse, molto più semplicemente, si è giunti alla conclusione che, coi tempi di attenzione che corrono, rimanere seduti in poltrona per due ore e passa a vedere gente che suona è un’attività ormai del tutto impraticabile.
Gli Afterhours, se non altro, vanno controcorrente. Avevano già realizzato qualcosa di simile qualche anno fa, in occasione del ventennale di “Hai paura del buio?” ma l’occasione a questo giro è ben più importante. Si tratta infatti del resoconto del concerto milanese del 10 aprile scorso, quando in un Forum di Assago completamente gremito hanno festeggiato i trent’anni di carriera. L’uscita in questione costituisce dunque l’ultimo tassello di un’operazione particolarmente importante, inaugurata dalla raccolta “Foto di pura gioia”, un box set a metà tra il best of e la raccolta di rarità.
Un’uscita importante anche per un altro motivo: il primo e unico disco dal vivo della formazione di Manuel Agnelli risale ormai al 2001 e sebbene fosse arrivato nel momento del loro apice artistico, si sentiva il bisogno di avere una fotografia più aggiornata.
Partiamo dal presupposto che mi sto riferendo solo alla versione audio: il dvd non l’ho visto e non so quindi se si limiti a documentare il concerto o se contenga anche interviste, riprese backstage e cose così. Oggi c’è l’abitudine (pessima, secondo me) a chiamare “film” qualunque cosa contenga delle immagini in movimento per cui capite che, senza verificare di persona, mi trovo un po’ in difficoltà.
Parliamo del live, dunque, recensiamo questo disco limitatamente al suo ruolo di album dal vivo. E diciamo pure una banalità ma che è una banalità che va detta subito, giusto per evitare polemiche: questo è un disco esclusivamente per fan. È un disco che tutti i presenti di quella sera avranno già comprato a scatola chiusa, riascoltandolo poi in religioso silenzio, magari versando qualche timida lacrima di commozione. È giusto così. È un ricordo, un segno tangibile di un momento importante nel rapporto tra il gruppo ed il proprio pubblico, un qualcosa che era sacrosanto voler conservare anche a livello concreto, materiale.
Di conseguenza (non occorre dirlo ma non si sa mai) chi non si considera parte della categoria “fan degli Afterhours” deve stare lontanissimo da questo lavoro. Se volete sentire la band milanese al meglio, procuratevi i primi tre dischi e già menzionato live “Siam tre piccoli porcellini” e siete a posto. Non volete sovraccaricarvi di roba? Optate per il live. In ogni caso, per capire cosa sono stati gli Afterhours nella storia del rock italiano basta questo. Tutto quel che è venuto dopo, a prescindere da ogni discorso di valore artistico, è una storia diversa, che si può apprezzare al meglio solo con l’aiuto del legame affettivo.
Nonostante un percorso discografico non proprio lineare e più volte lontano dal livello che ci si aspetterebbe da loro, gli Afterhours del 2018, per lo meno sul palco, sono una macchina da guerra perfetta. Al Forum non ci sono andato ma della tournée di “Folfiri o Folfox” ho visto tre concerti e posso dire che gli innesti di Stefano Pilia alla chitarra e Fabio Rondanini alla batteria hanno senza dubbio portato nuova linfa ad una formazione che, per motivi vari, stava ormai cadendo a pezzi. Di conseguenza, quello che sentirete in queste due ore e dieci minuti di registrazione è il meglio che questa band è in grado di dare oggi e, con 30 anni di carriera alle spalle, non è poco. Il suono è potentissimo, non particolarmente rifinito in sede di produzione e questo è ottimo, visto che è probabilmente più vicino a quello che hanno sentito quelli che c’erano.
La scaletta è celebrativa e in questo senso va a coprire ogni momento della loro carriera. Dischi come “Padania” e “I milanesi ammazzano il sabato” non compaiono quasi per nulla (forse che anche loro ne hanno compreso il reale valore?) ma per il resto c’è tutto, dagli inizi irriverenti, rumorosi ma anche ricchi di intuizioni melodiche dei primi capitoli (il quartetto di apertura con “Dentro Marilyn”, “Strategie”, “Germi” e “Ossigeno” è in questo senso esaustivo), passando attraverso le prove della fase centrale di “Quello che non c’è” e “Ballate per piccole iene”, più vicina al cantautorato e ad una certa declinazione canonica del rock, per approdare all’ultimo “Folfiri o Folfox” che per il sottoscritto rappresenta una prova più che discreta, pur tra alti e bassi.
C’è poi una parte centrale molto interessante, dove viene suonata una bella porzione di “Hai paura del buio?”, con tanto di line up originale comprendente gli ex membri Andrea Viti, Dario Ciffo e Giorgio Prette e addirittura una ripresa del vecchissimo repertorio di fine anni ’80, quando il gruppo cantava in inglese e c’erano Lorenzo Olgiati (che mise su il gruppo assieme a Manuel, nel 1985), Cesare Malfatti (che ha poi avuto una brillante carriera con i La Crus e più recentemente da solista), Paolo Mauri (che ha lavorato come ingegnere del suono in parecchi dischi della band) e Alessandro Pelizzari (che ha da tempo lasciato il mondo della musica), tutti quanti invitati sul palco per questa festa finale.
Purtroppo ci sono anche dei difetti: il primo è che la registrazione non è integrale. E questo, sinceramente, non è secondario: organizzi un evento, affitti il Forum, fai venire tutti gli ex membri, prepari una scaletta zeppa di brani per accontentare il maggior numero di persone possibili e poi non pubblichi tutto? Non so voi ma io se fossi un fan del gruppo mi arrabbierei. Oltretutto, che delle quattro canzoni del vecchio repertorio in inglese ne siano state tenute solamente due, mi sembra davvero una decisione infelice: indubbiamente la parte del concerto da consegnare ai posteri era quella, prima ancora della carrellata di classici suonati mille volte. In totale mancano sette pezzi, tra cui anche cose non banali come “Voglio una pelle splendida” e “Lasciami leccare l’adrenalina”. Può darsi che a molti non darà fastidio ma a me personalmente lascia un grosso senso di incompletezza. Soprattutto perché, ripeto, stai documentando un evento unico, i tagli non dovrebbero essere contemplati.
Il secondo aspetto è relativo alla voce di Manuel: gli anni passano, è giusto che sia così. Purtroppo però, non solo gli episodi più vecchi sono per lui davvero difficili da cantare ma anche nel materiale più recente, il timbro appare eccessivamente sfibrato, stanco. Con lui che, bisogna dirlo, non fa nulla per cercare di sopperire con mestiere laddove non ci arriva più ma il più delle volte forza intenzionalmente, con risultati non proprio convincenti. La sua prestazione è dunque, almeno per quanto mi riguarda, insufficiente e rende l’ascolto di questo live a tratti faticoso, con l’aggravante che, nelle parti dove il microfono viene rivolto verso il pubblico, il missaggio ha tenuto il singalong un po’ troppo basso, rovinando dunque l’effetto complessivo.
Ulteriore aspetto, forse minore ma comunque fastidioso, è rappresentato dai fade che sono stati inseriti a delimitare le varie sezioni del concerto. Ok, sarà una pignoleria inutile ma decidere di conservare la continuità col pubblico sarebbe stata un’opzione migliore, che avrebbe dotato il tutto di maggior realismo.
Archiviamo quest’esperienza, vediamo come andrà il tour da solista di Manuel Agnelli, dopodiché si cercherà di capire quale vita potranno vivere gli Afterhours dopo un anniversario di tale portata. Sempre che vogliano vivere ancora: arrivati a questo punto, dubito che qualcuno si scandalizzerebbe se decidessero di fermarsi per sempre.