Da un anno a questa parte Gaza non è più solo un luogo geografico ma si è tramutata anche in una tremenda e inesorabile metafora di crudeltà e disumanizzazione. La cosiddetta “Questione palestinese” è iniziata più di un secolo fa, ma dal 7 ottobre 2023 si ha l’impressione che anche le riflessioni geopolitiche, per quanto indispensabili, non bastino più. Le bombe israeliane hanno azzerato, giorno dopo giorno, mese dopo mese, la contabilità dei torti e delle ragioni, mettendoci davanti un orrore senza nome e senza fine, che rende ormai quasi impossibile addirittura il rimando a quanto compiuto da Hamas per provocare tale rappresaglia. Appunto. Il dubbio che ormai ci si trovi davanti ad un’altra cosa è divenuto una certezza, tanto che rimanere lucidi di fronte a quanto sta accadendo risulta decisamente complicato.
Forse, dunque, le parole non servono più. E i Godspeed You! Black Emperor le parole non le hanno mai usate. Sample vocali, quelli sì, ma era più un modo per decorare le proprie tessiture sonore, per dare l’idea di luoghi misteriosi da cui provenissero voci senza tempo, piuttosto che un compiuto tentativo di orchestrare una narrazione. La narrazione, per il collettivo canadese, è sempre stata cucita a pelle all’interno della loro musica. Ed è sempre stata una musica politica, anche nel senso letterale del termine, una musica schierata e spesso militante, che a tratti ha giocato neanche troppo velatamente con la violenza, attirandosi tempo fa le attenzioni delle forze dell’ordine (il famoso episodio di St. Louis nel 2003, quando furono fermati e trattenuti, dopo che nella macchina su cui viaggiavano vennero ritrovati volantini antigovernativi ed altro materiale compromettente).
I Godspeed You! Black Emperor, tuttavia, sono una band, non certo un nucleo terroristico. Ed è in quanto band che hanno sempre raccontato con realismo inaudito e con straordinario potere evocativo, sia le contraddizioni del capitalismo sia le tendenze militariste dei governi.
Ecco perché la notizia che il nuovo album di Efrim Menuck (di origini ebraiche come altri componenti della line up, un dato impossibile da ignorare nell’accostarsi a questo lavoro) e soci sarebbe stato dedicato a quanto sta accadendo a Gaza è arrivata come una liberazione: non daranno un giudizio definitivo, non troveranno un modo per risolvere questa tragedia; eppure, che anche loro si pronuncino è, in un modo del tutto inspiegabile e misterioso, un bene necessario.
Nell’ottavo album del gruppo il punto di partenza è il titolo: che non è un titolo, come dichiarano loro stessi, perché se a febbraio del 2024 i morti di questa guerra erano già quasi 30mila (e oggi, che sono passati otto mesi, sappiamo che il numero è drasticamente aumentato) ogni utilità nel mettersi lì a pensare a nuova musica sembrerebbe di per sé superfluo e fuori posto.
A meno che, ed è questo il punto, la musica non scaturisca da questa stessa negazione, rivestendosi della sofferenza degli abitanti di Gaza e trovando la strada migliore per arrivare al cuore degli ascoltatori.
Ed eccolo qui, dunque, un disco su Gaza. Un disco che non ha bisogno di parole e neppure, in fin dei conti, di variare troppo la formula che la band di Montreal ci propone da quasi trent’anni.
No Title… è un lavoro sorprendentemente melodico, quasi come se, di fronte all’orrore, le migliori risposte potessero essere dolcezza e delicatezza. La produzione di Jace Lasek dona a queste sei composizioni (che sono articolate come movimenti di un’unica suite, senza significative pause tra una e l’altra) un’urgenza particolare, come fossero suonate live e in una situazione di emergenza, ma il violino di Sophie Trudeau, da sempre trademark principale della formazione e qui protagonista forse come non mai prima d’ora, raggiunge vette di inaudita bellezza e contemplazione, evocando paesaggi dove, in un futuro desiderabile ma ancora lontanissimo, si possa forse vivere tutti assieme, vittime e carnefici.
Poche le accelerazioni ritmiche, confinate a certe bellissime progressioni nelle due tracce più lunghe, “Babys in a Thundercloud” e “Raindrops Cast in Lead”, si preferisce indugiare su pochi frammenti melodici, spesso in interazione con divagazioni Ambient, al confine col Drone (è il caso dell’evocativa “Broken Spires at Dead Kapital”, e della parte centrale di “Pale Spectator Takes Photographs”, dove anche il violino risulta importante per bilanciare gli equilibri).
La sensazione, rafforzata dallo scorrere placido ma allo stesso tempo guardingo di “Grey Rubble – Green Shoots”, è quella di essere di fronte al lavoro più strettamente “musicale” dell’ensemble di Montreal, non tanto come sinonimo di “accessibile” (per quel ruolo credo si debba indicare Luciferian Towers), quanto nel senso che è più preoccupato di creare una bellezza in cui perdersi, piuttosto che di veicolare contenuti e sensazioni. E che lo facciano all’interno del loro concept più esplicitamente politico, è di per sé un qualcosa da guardare con grande attenzione.
“Al di là della ragione e del torto c’è un campo. Ti aspetterò là” dice ad un certo punto, citando una poesia, uno dei due protagonisti di Apeirogon, il grandioso romanzo di Colum McCann che, arrivati a questo punto, risulta obbligatorio leggere per tentare di uscire dalle contrapposizioni binarie e riappropriarci della nostra umanità autentica.
Forse, nonostante tutto l’orrore a cui rischiamo sempre di più di divenire assuefatti, l’ipotesi da verificare potrebbe essere davvero questa. E il nuovo disco dei Godspeed You! Black Emperor potrebbe essere un ideale compagno in questo processo di riconquista. Una band gigantesca e indispensabile, oggi ancora più di prima.