Dopo due dischi favolosi, pubblicati nella seconda metà degli anni ’90 (l’omonimo esordio del 1996 e Without You I’m Nothing del 1998), la carriera dei Placebo si è avviata su un percorso accidentato e incostante, fra alti e (troppi) bassi, virando, soprattutto dopo Meds (2006) verso sonorità decisamente pop mainstream, che ne hanno, almeno secondo la critica, offuscato la caratura artistica.
Never Let Me Go, il loro ottavo album in studio, dopo nove anni di silenzio, è un ritorno coi fiocchi, un lavoro che ritrova un’ispirazione che sembrava ormai perduta per sempre, e che cancella, con un colpo di spugna, le pessime impressioni suscitate dal loro ultimo Loud Like Love del 2013, forse il punto più basso della storia del gruppo capitanato da Brian Molko.
Il disco, inoltre, è il primo registrato dalla band, ora diventata un duo, dopo le dimissioni del batterista Steve Forrest, e questa circostanza ha permesso ai superstiti, il citato Molko e Stefan Olsdal, un approccio diverso, meno dispersivo, cosa che ha reso il suono decisamente più coeso e incisivo. Lucido, emozionante e magistralmente arrangiato, Never Let Me Go è un vero e proprio gioiello, un disco vibrante, privo di filler e di cadute d’ispirazione. Il lunghissimo iato, evidentemente, ha giovato, ha permesso di lavorare con calma, di cesellare le canzoni, e anche se il mondo, negli ultimi anni, è cambiato radicalmente, Molko è riuscito a tenere dritta la barra, e a riportare alla luce quei segni distintivi che hanno contraddistinto le cose migliori della band, riuscendo ad adattare la propria personale visione ambientale, politica e sociale ai nostri giorni.
Dopo un lungo cammino, iniziato nel 1996, quando la band si faceva largo, con una propria identità, tra il fuoco incrociato del brit pop e del nu metal, rielaborando e attualizzando la lezione di David Bowie e Lou Reed, i Placebo sono riusciti a inserirsi nel tessuto artistico del momento, restando loro stessi e al contempo suonando modernissimi. Questo aspetto lo si era già colto fin dall’uscita dei singoli che hanno anticipato l’album: "Beautiful James", "Surrounded By Spies", "Try Better Next Time" e "Happy Birthday In The Sky" sono canzoni di livello altissimo, espressione di una visione matura e di una ritrovata stabilità, artistica ed emotiva.
La pandemia, che ha inevitabilmente modificato la società, ma anche la saturazione tecnologica, le responsabilità politiche e personali degli individui, l’ambiente e la sessualità, sono solo alcuni degli argomenti affrontati nella scaletta di un disco, che è probabilmente il loro miglior lavoro dai tempi di Without You I’m Nothing. Non è un caso, che in una scaletta pressochè perfetta, ci sono alcune canzoni tra le più ispirate della storia della band. L’opener folgorante di “Forever Chemicals”, dal tiro disturbante e perfetta esposizione di un suono che ben si adatta ai nostri giorni bui, l’ossessiva “Hugz”, equilibrato compendio tra oscuro battito industrial e abrasavi lick di chitarra, la straziante “Happy Birthday In The Sky”, una moderna “Twenty Years”, canzone sul dolore e sulla perdita, inevitabilmente correlata ai morti per covid, o la livida “Surrounded By Spies”, avviluppata in un mantello di scorbutica elettronica e sguardo sulle ansie di un mondo cannibalizzato dalla tecnologia, sono solo alcuni dei momenti imperdibili di questo disco.
Che sono tanti, e forse non basterebbe lo spazio di una recensione per focalizzarli con la giusta attenzione. "Try Better Next Time", ad esempio, punta il dito sui problemi ambientali e i cambiamenti climatici che il mondo sta affrontando, trovando uno straniante fascino nel contrasto fra il ritornello melodico e orecchiabile e l’urgenza del tema affrontato, "This Is What You Wanted", probabilmente la canzone più intima mai scritta dai Placebo, procede in linea retta e per accumulo, attraverso un ipnotico pattern di pianoforte che conduce alle brume di "When Missing", sogno di fuga dalla moderna società, e alla conclusiva "Fix Yourself", definitiva invettiva sul controllo del mondo da parte dei mass media, che mai come oggi dividono le persone per categorie, creando opposte fazioni e incitando all’odio (e quel verso, “I’m Bored Of Your Caucasian Jesus", è una chiara apertura di solidarietà al Black Lives Matter).
Resta da citare solo “Chemtrails”, a parere di chi scrive, il miglior brano dell’album, che è, forse, la più Placebo di tutte le canzoni, un brano pervaso da palpabile drammaticità e levigato da uno straordinario suono di synth, che testimonia anche l’incredibile lavoro di produzione fatto dalla band con la complicità di Adam Noble.
Complesso, intricato, oscuro, accattivante e al contempo inquietante, Never Let Me Go non è solo uno dei migliori episodi nella discografia dei Placebo, ma è soprattutto un disco che fotografa il mondo in cui viviamo, inquadrando l’ormai prossimo punto di rottura, e la violenza e la brutalità di una società persa in una deriva etica, che pare irreversibile. C’è sofferenza, nelle parole di Molko, e per tutta l’ora di durata del disco, si sente, acre, il profumo di sangue raggrumato intorno alle ferite. Siamo fragili e morenti, ma l’umanità racchiusa in queste tredici canzoni, nonostante tutto, rappresenta un flebile anelito di speranza. L’arte e la bellezza, forse, ci salveranno. Ed è proprio grazie a dischi così, che tutto è ancora possibile.