Quando premi play e finisci in un film di Tarantino ci sono diverse possibilità: c’è la surf music che ha costellato Pulp Fiction, il soul radiofonico di Reservoir Dogs, il western Morriconiano di Django o The Hateful eight, l’ampio spettro di generi percepibile in Kill Bill, Unglorious Bastards e Once upon a time in Hollywood, le opere totali dove ha tirato le fila, lasciando che si accostassero la grandezza del lavoro cinematografico con la relativa universalità del messaggio musicale. C’è poi la possibilità che si finisca in lui, il continuo outsider, uscito un po’ in sordina, con l’unica colpa di seguire un capolavoro tuttora ineguagliato come Pulp Fiction: Jackie Brown. Quello stile di funk perfettamente mischiato al soul rimane a parere di chi scrive il punto più alto di soundtrack Tarantiniano, e vi assicuro che è qua che ci troviamo ascoltando l’ultimo lavoro di Nathan Johnston & the Angels of Libra.
E se sin dalla sua prima traccia, “Curtis (Do You Wanna Be a Star?)”, la mente va a Jackie Brown, con la seguente “All your love” si erge dinnanzi a noi tutta la bellezza di un profilo di statua afroamericana, dove i riverberi sostituiscono i silenzi, cesellati con una delicatezza tale da sembrare un dono immeritato per le orecchie di chi la ascolta.
Quella che ci troviamo davanti è una di quelle collaborazioni riuscite e preziose: da un lato un gruppo nutrito e talentuoso di Amburgo, gli Angels of Libra, i quali, nati da un quartetto, si sono evoluti e solidificati in una formazione a dieci elementi tra strumenti e voci; dall’altro un irlandese dal sapore fuori della norma, così semplice e convincente che, quando gli Angels of Libra hanno maturato l’idea di fare un disco di collaborazioni vocali, trovato Nathan Johnston non ne hanno cercate altre: quella voce che stavano cercando ce l’avevano già davanti.
Il risultato è questo disco decisamente imperdibile, con dei fiati che ti fanno perdere tra i loro arabeschi e una sezione ritmica dove il basso e la batteria tengono in piedi la pulsazione, poggiandosi saldi sulle ispirazioni che guardano ai decenni addietro. Radici solide che trovano nuova linfa in un sound moderno ispirato alle tante rivisitazioni che hanno preso vigore negli anni Novanta (in piena fioritura del digitale), creando un vero e proprio solco dai suoni del funk di trent’anni prima. Degni di nota e non secondi per importanza anche gli arrangiamenti di piano elettrico e percussioni, le chitarre costanti e annegate nei filtri del wah e le voci.
Già, le voci. Nathan Johnston rimane il re indiscusso del disco, donando a chi lo ascolta la sensazione di trovarsi di fronte ad un miracolo più che ad un’ispirazione. Un tributo ad Al Green, la realizzazione del limite più vicino a cui un bianco può aspirare nell’ispirarsi alla musica black, la concretizzazione sonora di ciò che significano le radici, la terra e la crescita. I cori femminili sullo sfondo poi, sono di una bellezza spietata, un po' come quella degli archi nei tanti momenti introduttivi in cui la voce parla e recita, fatta per trasportare altrove chi vi si lascia trascinare.
Una sensazione che si respira bene in “Curtis (Reprise)”, ripresa (per l’appunto) del brano di apertura e quinto episodio del disco, uno spy funk che lascia senza parole una volta decollato e che trasporta fino a San Francisco, dove incontriamo i Bee Gees e il David Shire di Saturday Night Fever, prima di calare inspiegabilmente proprio mentre abbandona il lato strumentale, per accompagnare con parole e melodia verso qualcosa di nuovo. “Angel of Libra” è terribilmente moderna nel suo essere vintage e Morriconiana, una carta tanto vincente da far pensare a Kiwanuka, indiscutibilmente l’esempio più alto di del genere da un po’ di anni a questa parte.
Tocca poi alla seguente “Modern Times” affondare il colpo, portando al cuore delle gemme del disco: un lento che porta alla mente il miglior Otis, quella “Something is wrong with my babe” o la meravigliosa e sconosciuta “Just Keep Holding On” dei grandi Sam & Dave, i double dynamite. “Jericho” ricorda invece che lo scettro di disco soul più importante degli ultimi vent’anni spetta a Amy e a quel Back to Black che ha spalancato le porte a un genere in un mondo nuovo, che forse non era pronto ad accoglierla e lo ha capito troppo tardi. Che duetto sarebbe stato, quello tra Amy Winehouse e Nathan Johnston. E nel tempo che ci si impiega a sognarlo, la traccia esprime tutto il fascino, la scrittura e il magnetismo del timbro vocale già presenti, debordando addirittura in un leggerissimo rap che odora di western.
“Icarus” invece porta il disco verso la chiusura buttando tutti in pista e rendendo tutti prigionieri del senso del ritmo e del gusto sonoro, delle percussioni ossessive e dei colori della black music. Forse si rivela la più psichedelica tra le varie composizioni dell’album, ma non per questo di minore qualità, che anche in questo caso è garantita.
Un viaggio sublime quello offerto da Nathan Johnston & the Angels of Libra, che fa venire voglia di premere di nuovo play una volta giunti a conclusione e poi chiudere subito gli occhi, per godersi ogni tappa con totalizzante calma e piacere. Un disco di soul e funk sorprendente, un’autentica perla che merita un ascolto attento e che regala ad ogni ascolto una sensazione di caldissima familiarità.