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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
28/02/2022
Al Kooper
Naked Songs
“Sono noto per farmi trovare al posto giusto nel momento giusto, suonando la cosa giusta.” Chi può contraddire l’epico Al Kooper, un artista che ha ricevuto in regalo una chitarra da Jimi Hendrix, è grande amico di Pete Townsend, si è esibito e ha improvvisato con i giganti della musica, fra cui Ray Charles e Stevie Wonder? Dopo quasi cinquant’anni è tempo di riscoprire una delle sue opere tremendamente intriganti, “Naked Songs”.

Al Kooper rappresenta una delle figure più leggendarie del mondo musicale. Precursore del revival blues negli anni sessanta con i Blues Project, membro fondatore degli straordinari Blood Sweat & Tears e mattatore nelle incandescenti “avventure live” insieme a “Dinamite” Mike Bloomfield: sarebbe sufficiente solo questo a farlo volare nell’Olimpo degli Dei delle sette note, ma rimane scolpito nella memoria, e soprattutto nella storia, quel marchio di fabbrica unico e geniale, stampigliato in lungo e in largo dal suo organo Hammond, in Like a Rolling Stone di Bob Dylan.

“Molta fortuna e smisurata ambizione…ecco, la combinazione delle due cose ha funzionato perfettamente per me.”

Sicuramente il destino e un tocco di spregiudicatezza hanno influito nella formidabile carriera del cantautore, produttore ed eccellente musicista americano, ma sono state le innate doti artistiche a fare la differenza. Parliamo di un personaggio dalle mille sfaccettature, che ha prestato le sue conoscenze per valorizzare al meglio gruppi come i Lynyrd Skynyrd, di cui può essere definito senza titubanza il mentore, e funamboli come Nils Lofgren e Joe Ely. Irripetibile e travolgente è poi la magia innalzata in uno dei classici dei Rolling Stones, l’affascinante e misteriosa "You Can’t Always Get What You Want", resa ancor più celebre e riconoscibile al primo istante dall’ancestrale atmosfera creatasi per merito del corno francese, magistralmente suonato proprio dal tastierista di Brooklyn, capace, con incredibile sensibilità, di trasformare un desiderio, un sogno, in realtà.          Un’abilità cresciuta nel tempo, quella di strimpellare qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani, fino a diventarne un maestro già in gioventù, durante il college.

Un simile talento, ovviamente, non può che lanciarsi anche nella carriera solista, complementare a tutte le collaborazioni avvenute proficuamente e ciliegina sulla torta nell’excursus artistico, dopo le partecipazioni ai vari ensemble. I Stand Alone e You Never Know Who Your Friends Are, realizzati tra l’inizio e la fine del 1969, contribuiscono a dare un tono eccelso a Alan Peter Kuperschmidt, questo il vero nome, amante degli pseudonimi e conosciuto pure come Roosevelt Gook. I susseguenti lavori conducono al decennio successivo, sempre con la formula della contaminazione, che porta a mischiare le sue radici jazz soul con il blues, l’R&B e il pop rock, introiettandosi anche verso i generi ad essi direttamente connessi. Ed un passo avanti, che lo spinge a tendere verso sfumature gospel, black e accenni spiritual, con ballate da capogiro inframmezzate da cover o esperimenti country folk, è Naked Songs, opera da riscoprire.

Canzoni Nude. Mai titolo poteva essere più indovinato dal mitico Al per la sua sesta fatica, pubblicata ormai quasi cinquant’anni fa, nel gennaio 1973. In effetti si ascoltano dieci brani svestiti da inutili orpelli, spesso è unicamente l’artista a dominare le melodie con l’Arp Synthesizer, insieme a piano e organo. Tutto ciò per dare risalto alla qualità delle composizioni, in virtù di un sound cristallino, comunque ricco di sfaccettature grazie a un sapiente e dosato utilizzo di coristi e turnisti di livello. Solo in tre brevi episodi si fa ricorso a un’orchestra, semplicemente per corroborare le geniali “partiture” di un oltremodo raffinato polistrumentista, con aspirazioni da one man band. 

La memoria nutre la coscienza. Tutte le influenze del passato si intersecano con quelle del presente per creare qualcosa di nuovo per il futuro: ecco convivere Mississippi John Hurt e Reverend Gary Davis con Curtis Mayfield e Harry Nilsson, senza scordare la lezione di Ray Charles. L’inizio è indimenticabile, fa percepire che nella nostra musica ci sono millenni di storia, di preghiere nei templi, di canti senza età. "(Be Yourself) Be Real" ci rammenta interamente questo con il delicato intro celestiale di piano - ecco da chi ha attinto per la propria formazione Ben Folds - i suoi dubbi amletici: “Perché cerchiamo di essere ciò che vogliamo essere se non possiamo mai essere ciò che siamo” che trovano risposta nell’inciso, pervaso da cori atavici “Sii te stesso, sii reale, non essere nessun altro”.

Non vi è nemmeno il tempo di riprendersi che parte il blues della celebre "As the Years Go Passing By", un classico di Fenton Robinson del ’59, ripreso da Albert King per il suo epico "Born Under a Bad Sign" otto anni dopo, e noto per aver ispirato la prima parte del riff di "Layla", dei Derek and the Dominos. La versione qui presente, per una canzone di cotanta storia, è semplicemente eccezionale, infervorata da un organo pazzesco ed estranianti assoli di chitarra, come se non ci fosse un domani, proprio di Kooper, il cui estro alle sei corde risulta davvero equivalente a quello alle tastiere. Si narra che avesse fatto addirittura un provino convincente per i Deep Purple, quando per un periodo erano alla ricerca di un sostituto per Ritchie Blackmore, rifiutando però la parte e consigliando l’ingaggio di Randy California, uno dei suoi idoli, al proprio posto.

La pomposa ode "Jolie", dedicata alla figlia di Quincy Jones, il tiepido bozzetto di "Blind Baby", dall’andamento bucolico enfatizzato con il violino di Richard Green e un testo apparentemente semplice, che invece analizzato bene scava in profondità le miserie umane, possono sicuramente sembrare episodi minori, ma brillano per la freschezza degli arrangiamenti e lasciano spazio alle più ambiziose "Been and Gone" e "Peacock Lady". La nascita di questi due brani è legata alla tumultuosa relazione vissuta in quel frangente con l’avant garde jazz vocalist Annette Peacock, musa ispiratrice nonché autrice della prima, dalle liriche che sembrano sfociare nel grottesco. Il pezzo che porta il suo nome invece è idilliaco, compare persino un flute, dolcemente suonato dall’artista americano, e fa capolino un arrangiamento orchestrale da brividi.

"Sam Stone" viene scelto come singolo apripista nel Settembre ’72 ed è una rivisitazione in territorio R&B della celebre folk song di John Prine, amarissima riflessione sulle vicissitudini di un veterano in seguito morto di overdose. L’uso dei cori con sfumature gospel - fra i partecipanti una meravigliosa Patti Austin - enfatizza il dolore e la tristezza presenti nelle parole e si raggiunge un’intensità emotiva indelebile. Un’altra cover azzeccata, stavolta in chiave spiritual, semplicemente con piano, organo e vocalizzi, è "Touch the Hem of His Garment", lussureggiante gioiellino di Sam Cooke che riconferma, se mai ce ne fosse bisogno, il buon gusto del “genietto di Brooklyn”. Anche la scaramuccia amorosa "When Were You When I Needed You", scritta a quattro mani con una vecchia conoscenza di fine anni cinquanta, il songwriter americano Irwin Levine, è divina e rappresenta una profonda influenza per la Love Unlimited Orchestra, che di lì a poco comincerà la propria straordinaria avventura.

La conclusione ripone un’altra volta in primo piano il protagonista dell’opera, unicamente accompagnato da un’orgia di violini per "Unrequited", brano finale della raccolta, carico di pathos, nuovamente correlato alla tormentata liaison con la Peacock.

Naked Songs permane uno dei momenti di massima espressione di Kooper, il quale dopo l’ottimo Act Like Nothing’s Wrong (1977) vive una lunga situazione anomala di calma artistica, tra il 1982 e il 1994. Due album dal vivo, Soul of a Man (1995) e Johnnie B. Live (1997), quest’ultimo con il leggendario pianista Johnnie Johnson storico collaboratore di Chuck Berry, lo rimettono in pista e nel nuovo secolo esce il sorprendente Black Coffee, ben ricevuto da pubblico e critica, seguito tre anni dopo dall’ultimo -almeno per ora- affascinante episodio, White Chocolate, realizzato nel 2008, in cui festeggia dieci lustri nel music business. Anche se attualmente ritirato da tale mondo l’eroico musicista di origini ebraiche non ha mai ufficialmente abbandonato la sua devozione per le sette note e sul proprio sito pubblica intriganti podcast in cui risponde alle domande inviate da fan e appassionati di musica e della sua arte che, è importante sottolineare, ha ottenuto riconoscimenti da artisti trasversali, dalla scena hip hop, con Beastie Boys e Jay-Z che hanno campionato alcune sue composizioni, ai giganti della “musica del diavolo”.

“Al è un vero amico del blues. Riesce sempre a darmi allegria, e proprio quando pensavo di averlo capito come tastierista, una sera è salito sul palco e ha suonato la chitarra tanto bene quanto piano e organo! Mi sono esibito con lui, sono stato pure prodotto da questo incredibile personaggio e ho sicuramente riso copiosamente insieme a lui: non so se posso dire lo stesso di nessun’altra persona.” (B.B. King)